di Paolo M. Storani - Il presente lavoro, frutto della raffinata e mai banale penna di Patrizia Ziviz, fornisce un ulteriore apporto alla questione del danno da perdita della vita che gli abituali frequentatori di LIA Law In Action ben conoscono: quella figura che Emanuela Navarretta ha definito "il danno per l'istantanea perdita del valore della vita trasmissibile con il meccanismo successorio"; ritengo tale definizione calzante per prevenire fraintendimenti concettuali.
Di certo, non potrà essere sufficiente il colpo di fioretto assestato con la pronuncia delle Sezioni Unite n. 15350 del 22 luglio 2015 per archiviare con un liquidativo game over uno dei più complessi problemi che la dottrina più avveduta e meno retriva ha posto alla giurisprudenza.
Il rimando al precedente delle Sezioni Unite dell'Anno Domini 1925 (avete letto bene: 1925!) sigilla davvero l'irrisarcibilità o suona, invece, come un arrocco all'interno di un sostanziale non liquet, un voler accantonare la questione pur così vigorosamente introdotta dalla pronuncia della Sezione semplice, la Terza, della Cassazione, n. 1361 del 23 gennaio 2014 di Luigi Alessandro Scarano?
Al Consigliere Scarano va in ogni caso lo storico merito di avere tenuto accesi i riflettori sulla loss of life.
Prevarrà sempre - in una continua replica della logica patrimonialistica - la propensione a ristorare magari la perdita delle opportunità di conseguire un vantaggio sperato sulla perdita certa di un diritto inviolabile?
Oltretutto, la vita è bene meritevole di tutela nell'interesse dell'intera collettività e la funzione peculiare del diritto criminale, l'irrogazione della sanzione penale, non esclude una ricaduta civilistica delle esigenze punitive e di deterrenza - prevenzione generale della collettività nel suo complesso.
Infine, stiamo arrivando all'apice nel lavoro di ricerca sui danni punitivi: sono davvero contrari all'ordine pubblico al punto che le sentenze straniere che li contengono non sono delibabili?
Vi lascio all'ariosa prosa di Patrizia, ringraziandola sentitamente, come sempre.
di Patrizia Ziviz - Tra le pagine più sofferte e controverse di cui si è discusso in tempi recenti, nell'ambito della responsabilità civile, va senz'altro annoverata la risarcibilità della perdita della vita. Il problema rimane ancor'oggi attuale, dal momento che non può ritenersi per alcun verso definitivo l'assetto della materia delineato dalla pronuncia delle Sezioni Unite n. 15350/2015.
Sulla questione si segnala la recente pubblicazione del libro "Il danno da morte. Cinque voci per un tema controverso", a cura di Giuseppe Cricenti, nel quale sono raccolti cinque saggi in cui si affronta tale delicata materia, per mettere in luce i profili problematici tuttora aperti.
Tra le varie indicazioni che emergono da parte dei vari autori, segnaliamo quella che punta a individuare una soluzione possibile all'interno della logica applicata per la perdita di chancesdi sopravvivenza. A tale proposito, si afferma:
"Un differente percorso, battuto dagli interpreti, è quello mirante a ricostruire la perdita della vita nei termini di danno da perdita di chancesdi sopravvivenza. La Cassazione - nella sentenza n. 1361/2014 - richiama le indicazioni giurisprudenziali formulate con riguardo a tale pregiudizio nei casi di negligenza medica, relativamente alle ipotesi in cui non sia acclarato che la stessa abbia prodotto la morte, ma abbia influenzato negativamente la possibilità di sopravvivere del paziente, per rammentare come dalle stesse possa ricavarsi il principio più generale secondo cui "allorquando viene colpito un bene già parte del patrimonio della vittima, rappresentato dalla 'aspettativa di vita media', non può negarsene il ristoro". Si sostiene, tuttavia, che - attraverso l'applicazione di tale principio, il quale prospetta la tutela della chance quale entità patrimoniale giuridicamente ed economicamente valutabile - sarebbe garantita la protezione di un bene che sarebbe autonomo rispetto al "bene vita, che (…) è bene altro e diverso, in sé anche la prima racchiudendo".
Una conclusione del genere merita, però, di essere rimeditata, alla luce di una verifica circa le logiche effettivamente seguite dalla giurisprudenza in ordine alla perdita di chancesdi sopravvivenza. Va rilevato, in particolare, che le regole applicate a tale riguardo si distaccano nettamente da quelle seguite in ambito patrimoniale, dove la chance viene configurata come un bene autonomo compreso nel patrimonio. Diversamente, le opportunità di sopravvivenza mal si prestano ad essere ricondotte entro tale schema; oggetto della lesione risulta, in effetti, un interesse di carattere personale, il quale non appare suscettibile di proiettarsi su un bene - ancorché di carattere immateriale - distinto dallo stesso. Non emerge, quindi, la possibilità di enucleare, sia pure nei termini di costruzione puramente intellettuale, l'esistenza di un'entità a sé stante, ascrivibile al patrimonio della vittima. A venire in rilievo - quale oggetto della tutela aquiliana - è, piuttosto, la menomazione di una capacità dell'individuo. Ciò a cui si guarda, quale danno risarcibile, è la compromissione dell'attitudine alla sopravvivenza di cui è dotata la vittima, per cui il pregiudizio corrisponde all'incidenza negativa che tale attitudine ha subito a seguito dell'illecito.
Un simile percorso - tramite il quale viene assicurata la tutela risarcitoria in casi ove non appaia dimostrato il legame tra comportamento lesivo e decesso (bensì rilevi, sul piano causale, la lesione della chance) - può essere praticato anche nelle ipotesi in cui la morte sia conseguenza certa del torto. In tal caso, a venire in evidenza quale danno-conseguenza, non sarà una semplice alterazione negativa dell'attitudine alla sopravvivenza della vittima, bensì la completa soppressione di tale capacità. Seguendo tale ragionamento, si perviene a tracciare un modello in cui la lesione del diritto alla vita determina - quale effetto negativo qualificabile nei termini di danno-conseguenza - la soppressione della capacità di sopravvivenza del danneggiato: vale a dire una capacità che costituisce la condizione necessaria per il godimento del diritto stesso. Ad incarnare il pregiudizio non è quindi la morte, e nemmeno la vita non vissuta, bensì la soppressione - che ha luogo in maniera istantanea all'atto della lesione - dell'attitudine alla sopravvivenza, quale fondamentale capacità dell'individuo. Il decesso rappresenta, dal canto suo, l'esito finale che segue a tale perdita, la quale viene perciò a prodursi in capo ad un soggetto ancora in vita.
Una ricostruzione del genere consente di modulare il pregiudizio sulla base delle specifiche caratteristiche dalla vittima: ad essere colpita, infatti, è un'attitudine che non appare identica per qualunque soggetto, in quanto influenzata dall'età, dal sesso e dalle condizioni di salute del danneggiato. A far valere il risarcimento di questo danno, non esercitabile dal titolare in quanto deceduto, saranno coloro che assumono la veste di eredi".