Dott. Massimiliano Pagliaccia - È da sempre stata fonte di contrasti giurisprudenziali nonché di fiumi d'inchiostro in dottrina, la vexata quaestio attorno all'applicabilità della disciplina processuale comune - dettata dal codice di procedura civile - al procedimento dell'arbitrato rituale, a nulla rilevando la distinzione che esso sia amministrato da un arbitro unico ovvero da un collegio arbitrale.
Le questioni di maggiore rilievo hanno interessato in principale misura la disciplina formale degli atti e del procedimento come regolata per il rito ordinario, anche in relazione alle prescrizioni in tema di nullità degli atti , nonché in tema dimandato e sottoscrizione degli atti di cui agli artt. 83 e 125 cpc. Diverse sono state le sentenze degli Ermellini ad occuparsi dell'arbitrato rituale ma la più illuminante di queste statuizioni è senza ombra di dubbio la sentenza delle Sezioni Unite Civili n. 9839/2011.
La Suprema Corte, ripercorrendo in modo analitico il filo conduttore dell'intero panorama legislativo, rileva preliminarmente che ' con la Riforma del 1994 l'atto introduttivo del giudizio arbitrale produce effetti sostanziali di talché lo stesso deve ritenersi equiparato ad una domanda giudiziale, a cui devono applicarsi le norme codicistiche in tema di procura ad litem (omissis..).'
Si deve preliminarmente ricordare che con la sentenza 9839/2011 la Corte si trova a decidere - fra gli altri motivi (in cui risultano articolati i ricorsi principale ed incidentale riuniti a norma dell'art. 335 cpc) - sulla questione relativa al ' se il lodo debba considerarsi affetto da nullità non sanabile - trattandosi di inesistenza o nullità non ratificabile - nel caso in cui il procedimento arbitrale sia stato introdotto con atto privo della sottoscrizione della parte e senza conferimento di mandato ad litem' .
La Suprema Corte richiamandosi a quei sicuri elementi desumibili dalla sua giurisprudenza (tra cui da ultimo, Cass. n° 24866 del 2008; n° 14972 del 2007; n° 6985 del 2007) converge verso la univoca conclusione che ''l'arbitrato
rinviene il suo fondamento nel potere delle parti di disporre di diritti soggettivi, che costituisce espressione di autonomia negoziale, irrilevante essendo la distinzione tra arbitrato rituale e irrituale, dovendosi quindi escludere che l'arbitrato, pur se rituale, sia riconducibile alla giurisdizione' .
La Suprema Corte si rifà anche ai ' lasciti ' giu risprudenziali della Corte Costituzionale la quale rileva che ' 'il fondamento di qualsiasi arbitrato è da rinvenirsi nella libera scelta delle parti ' (Corte Cost. sentenze nn° 127 del 2007; 221 del 2006; 376 del 2001) nonché alla stessa modifica della disciplina del procedimento arbitrale di cui alla legge n° 25 del 1994 che ha inserito agli articoli 669 octies cpc, 2652, 2653, 2690, 2691 e 2943 cc il riferimento ' all'atto notificato con il quale una parte (omissis) dichiara la propria intenzione di promuovere il procedimento arbitrale, propone la domanda e procede, per quanto le spetta, alla nomina degli arbitri'.
La Cassazione rammenta in estrema sintesi che la domanda di arbitrato da intendersi dunque quale vero e proprio atto introduttivo del giudizio (anche se gli arbitri potranno poi fissare un termine per la precisazione dei quesiti) è equiparata alla domanda giudiziale, quanto agli effetti prodotti nelle sfere giuridiche e delle parti e degli stessi arbitri, i quali tuttavia ' non svolgono funzioni giurisdizionali e non si sostituiscono agli organi dello Stato' (legge 25 del 1994) ma si inseriscono in una vicenda negoziale al fine unico di 'giudicare' con l'ausilio delle prove ' 'mediante un dictum che esprime adempimento d'incarico contrattuale'.
È proprio tale ultimo postulato del Giudice di legi ttimità che rincuora e conforta l'applicabilità dell' art. 1218 c.c. al rapporto giuridico instauratosi fra gli arbitri e le parti, una volta che i primi abbiano accettato il loro incarico (per l'appunto contrattuale!!).
Tale natura privatistica del rito arbitrale fa inoltre affermare alla Corte che 'le parti possono stare davanti agli arbitri di persona, ovvero avvalersi di un fiduciario non abilitato all'esercizio della professione legale' ' in quanto 'non è in esso prevista la difesa tecnica mediante conferimento dello ius postulandi'.
L'assoluta novità (e freschezza!!!) di tale brilla nte assunto del Giudice di legittimità induce inoltre l'ordinamento giuridico tutto ad aprirsi ad uno spiraglio tanto inaspettato quanto rivoluzionario: la possibilità per i laureandi ed i laureati in Giurisprudenza di potere seguire dal punto di vista professionale e personalmente un vero e proprio processo assistendo, rappresentando e difendendo la parte in causa senza preliminarmente dovere essere iscritto negli Albi dei Praticanti o addirittura essere in possesso del Diploma di Laurea magistrale in Giurisprudenza (e senza alcun limite di valore, come invece avviene ad esempio per le controversie dinanzi al Giudice di Pace!!). Questo ovviamente non senza limite alcuno visto il divieto di esercizio abusivo della professione legale (sfornito cioè dell'abilitazione statale), la cui fattispecie potrebbe essere integrata qualora tale attività venga a ripetersi in modo sistematico e col carattere della stabilità.
La disciplina riformata con Riforma forense di fine 2012 ha però, escluso tale possibilità, facendo confluire tale facoltà di assistenza nelle mani degli Avvocati.
Tornando alla disciplina degli atti, dopo una motivazione piuttosto articolata alla quale si rimanda, la Cassazione ritiene che la scelta legislativa - rimasta inalterata - è quella di 'rimettere alle parti, e in subordine agli arbitri , l'iniziativa e la determinazione delle regole del procedimento' essendo questa ' la massima espressione del principio di libertà che governa l'arbitrato' . Nella sentenza 9839/2011 la Corte si occupa solo indirettamente (in quanto in quell'arbitrato il ricorrente aveva spedito l' atto introduttivo con raccomandata con ricevuta di ritorno e ciò era stato sufficiente a dare impulso al procedimento senza incorrere in alcuna sanzione processuale!!) dell'applicabilità o meno dell' art. 163 cpc all'atto introduttivo del giudizio arbitrale tuttavia, considerato il tenore della sentenza tutta non può che convenirsi pacificamente che l'atto introduttivo del giudizio arbitrale non soggiace alle regole dettate dall'art. 163 cpc per l'atto introduttivo dinanzi al Giudice ordinario, in special modo per i requisiti di sostanza, di forma e modalità di notificazione (a mezzo di ufficiale gi udiziario) alla controparte.
Dovranno essere gli arbitri di volta in volta (e salvo che le parti non abbiano già provveduto) a richiamare o meno l'efficacia vin colante di tale articolo, non di meno, con un'ordinanza interlocutoria qualora - in presenza di contumacia del convenuto - sia il ricorrente stesso a richiederlo in apposita domanda.
Continuando sulla via di questa interpretazione (che però è l'unica permessa dalla sent. 9839/2011) la notifica dell'atto introduttivo del rito arbitrale dovrà dunque ritenersi soggetta alla regola generale dell'art. 1335 c.c.
Contraltare dell'illuminante statuizione degli Ermellini è dunque l'obbligo per gli arbitri di indicare - una volta accettato l'incarico - (quasi come atto dovuto del loro Ufficio) di indicare se deve o meno essere applicata la disciplina processuale comune.
Il non adottare provvedimento alcuno in tale senso deve fare propendere per il fatto che nessun articolo di Legge riguardante il rito comune potrà poi essere invocato od utilizzato con efficacia vincolante (e ragionevole a norma dell'art. 111.6 Cost.) nella motivazione di una declaratoria di nullità.
Si rilevi inoltre che la giurisprudenza ritiene comunque applicabile il principio di cui all'art. 156 comma 3 cpc, in base al quale nessuna nullità può essere pronunciata se l'atto che l'ha prodotta ha egualmente raggiunto il suo scopo.
Per concludere quella che è l'unica interpretazione possibile confortata dalla sent. 9839/2011 e ribadita anche l'applicabilità de ll'art. 111 Cost. a qualsiasi provvedimento del rito arbitrale (anche in ordine all'obbligo di motivazione di tutti i provvedimenti giurisdizionali) potremmo sostenere che la Suprema Corte di Cassazione abbia voluto statuire in sunto che in mancanza di una specifica previsione degli arbitri di quale sia la disciplina da applicare devonsi applicare le regole della logica.
Dott. Massimiliano Pagliaccia
Giurista e Giudice arbitro