di Lucia Izzo - In assenza di mandato scritto, il conferimento dell'incarico può ritenersi dimostrato anche in base alla sola email e dai fax. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, seconda sezione civile, nella sentenza n. 1792/2017 (qui sotto allegata) accogliendo il ricorso di un ingegnere che aveva ottenuto decreto ingiuntivo nei confronti di una s.a.s. per somme spettantegli a titolo di compenso per le rese prestazioni professionali di consulenza ed assistenza.
Ciononostante, a seguito dell'opposizione della s.a.s. e dell'espletata istruttoria, il Tribunale revocava l'ingiunzione ritenendo l'assenza di uno specifico incarico. In appello, il professionista precisava che l'incarico poteva essere conferito in qualsiasi forma idonea a manifestare il consenso delle parti, ed era comunque desumibile dalle prove testimoniali e documentali. Tra queste vi era, in particolare, una mail a lui diretta dalla quale emergeva la conferma dell' "ordine" in oggetto.
Anche la Corte d'Appello, però, rigettava l'impugnazione ritenendo che il titolo in base al quale il professionista pretendeva il compenso oggetto di causa, pur non esigendo alcuna forma particolare, non risultava assolutamente né dalle deposizioni testimoniali, né dai documenti.
Diverso è, invece, l'esito dell'istanza presentata dal professionista innanzi alla Cassazione: gli Ermellini rammentano che "il rapporto di prestazione d'opera professionale, la cui esecuzione sia dedotta dal professionista come titolo del diritto al compenso, postula l'avvenuto conferimento del relativo incarico in qualsiasi forma idonea a manifestare inequivocabilmente la volontà di avvalersi della sua attività e della sua opera da parte del cliente convenuto per il pagamento di detto compenso".
La prova dell'avvenuto conferimento dell'incarico, prosegue il Collegio, quando il diritto al compenso sia dal
convenuto contestato sotto il profilo della mancata instaurazione di un siffatto rapporto, può essere data dall'attore con ogni mezzo istruttorio, anche per presunzioni, mentre compete al giudice di merito valutare se, nel caso concreto, questa prova possa o meno ritenersi fornita, sottraendosi il risultato del relativo accertamento, se adeguatamente e coerentemente motivato, al sindacato di legittimità.
Stante la possibilità di fornire la prova anche a mezzo di presunzioni, il giudice, chiamato a esercitare la sua discrezionalità nell'apprezzamento e nella ricostruzione dei fatti, deve altresì esplicitare il criterio logico posto a base della selezione degli indizi e le ragioni del suo convincimento..
Nel caso di specie, al fine di dimostrare l'avvenuto conferimento dell'incarico, l'ingegnere aveva prodotto due comunicazioni fax e una comunicazione mail inviategli dalla società, in cui veniva chiesto al professionista di verificare quanto richiesto all'azienda stessa da un soggetto deputato a verificare l'assolvimento degli obblighi di legge e a rilasciare la certificazione di qualità che la s.a.s. voleva ottenere e per la quale si era rivolta all'ingegnere.
Il giudice di merito non ha indicato, spiega la Cassazione, le ragioni per le quali tale comunicazione fosse priva di valenza dimostrativa dell'incarico professionale e manca, altresì, una valutazione specifica logicamente argomentata da parte della Corte d'Appello sulle deposizioni testimoniali, essendosi i giudici di appello limitati a commentare che neppure da esse "risulta assolutamente" l'incarico.
Né può avere rilievo in tal senso la considerazione svolta dalla Corte di merito, secondo cui il professionista nulla avrebbe dedotto sul parere dell'associazione professionale ex art. 2233 c.c.: per il Collegio "non integra, infatti, un ostacolo alla determinazione del compenso il solo dato di fatto dell'omessa allegazione, da parte del professionista, del parere del competente organo professionale, ove il giudice, a sua volta, abbia omesso di provvedere alla acquisizione dello stesso, in conformità al disposto del citato art. 2233 c.c.".
Il ricorso pertanto va accolto, con cassazione della sentenza impugnata e rinvio ad altra sezione della Corte d'Appello.
Cass., II sez. civ., sent. n. 1792/2017• Foto: 123rf.com