Integrato il reato di atti persecutori e non quello di molestie se i comportamenti sono ossessivi e minacciosi

di Marina Crisafi - Pedinare e minacciare l'ex moglie è stalking. Lo ha ribadito la Cassazione con la recentissima sentenza n. 8362/2017 (qui sotto allegata) confermando la condanna inflitta ad un marito nei confronti della ex moglie.

A nulla rilevano le doglianze dell'uomo che sosteneva che i suoi comportamenti oppressivi fossero riconducibili in molestie tipiche di una separazione coniugale e che in ogni caso le condotte non avevano alterato le abitudini di vita della donna, che era in grado di "continuare ad uscire da sola".

Per gli Ermellini hanno ragione i giudici di merito a parlare di atti persecutori e non della fattispecie ex art. 660 c.p. come chiedeva l'imputato.

A incastrare l'uomo non sono solo le parole della moglie e degli altri testi, ma anche l'operazione delle forze dell'ordine che aveva portato all'arresto in flagranza dell'imputato e all'applicazione della misura cautelare del divieto di avvicinamento.

Le minacce e le vessazioni subite dalla donna per circa un anno, con continui pedinamenti, appostamenti nei pressi del luogo di lavoro e le reiterate minacce di morte, fonti "di continuo stato d'ansia e di timore per l'incolumità propria e dei familiari", tolgono ogni dubbio sullo stalking, non essendo necessario, scrivono dal Palazzaccio, "anche il mutamento delle abitudini di vita, che è poi l'unico evento del reato sul quale il ricorso si sofferma senza confrontarsi con gli altri ritenuti in sentenza, pur riconoscendo che la relativa previsione è alternativa e tra l'altro confondendo il mutamento delle abitudini con lo stato d'ansia, che costituiscono appunto eventi alternativamente previsti dalla norma incriminatrice".

Quanto al diniego delle attenuanti generiche, per piazza Cavour, "la corte siciliana ha opportunamente valorizzato, con conseguente incensurabilità della relativa statuizione, il carattere opprimente ed invasivo della condotta persecutoria protrattasi per oltre un anno senza alcuna dimostrazione di resipiscenza, tale da aver determinato perfino l'applicazione di una misura cautelare". In tal modo, dunque, "è stato adeguatamente assolto l'obbligo di motivazione di tale diniego, avendo il giudice di merito giustificato l'uso del potere discrezionale conferitogli dalla legge con l'indicazione delle ragioni ostative alla concessione senza essere tenuto ad esaminare tutte le circostanze prospettate o prospettabili dalla difesa".

Da qui l'inammissibilità del ricorso.

Cassazione, sentenza n. 8362/2017

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