di Marina Crisafi - Il padre autoritario e severo che mette in soggezione i figli può essere condannato per maltrattamenti. Questo è quanto si ricava dalla sentenza della sesta sezione penale della Cassazione di oggi (n. 17574/2017, qui sotto allegata), la quale tuttavia, ha ricordato che è essenziale ai fini dell'integrazione del reato ex art. 572 c.p. la sussistenza del dolo abituale.
Nel caso di specie, l'uomo era stato assolto in primo grado, giacchè pur emergendo che fosse "un capo famiglia autoritario e intransigente che non riesce a comunicare con i figli - e usa - metodi di disciplina assai severi", i giudici hanno ritenuto di escludere "una condotta abituale osservando che il clima familiare non era sempre teso" e non ravvisando "la volontà e la consapevolezza di persistere in un'attività vessatoria" considerando che "l'imputato teneva all'educazione dei figli, seppure con metodi non condivisibili e li aiutava a migliorare il rendimento scolastico e le relazioni con i coetanei".
La corte d'appello, invece, riformando la sentenza del tribunale, lo aveva ritenuto responsabile del reato ex art. 572 c.p. condannandolo a un anno e 8 mesi di reclusione oltre al risarcimento del danno alle parti civili.
L'uomo ricorreva dunque al Palazzaccio, chiedendo l'annullamento della sentenza per inosservanza della legge e vizio di motivazione in relazione all'art. 572 c.p., "per avere erroneamente riconosciuto l'abitualità delle condotte aggressive e il dolo unitario".
E gli Ermellini in parte gli danno ragione, decidendo che le doglianze meritano un approfondimento.
Il principio secondo cui il giudizio di condanna è legittimo "se l'imputato risulta colpevole aldillà di ogni ragionevole dubbio (art. 533, comma 1, c.p.p.) - ricordano infatti - implica che, in mancanza di dati probatori nuovi, la reformatio in pejus della sentenza di assoluzione di primo grado deve poggiare su una argomentazione più forte che elida il dubbio che potrebbe essere evocato dal contrasto fra le due sentenze".
Orbene, nel caso in esame, la Corte d'appello nel riformare in peius la sentenza
assolutoria di primo grado, "non era tenuta - ex art. 6 CEDU, come interpretato dalla sentenza della Corte Europea dei diritti dell'uomo del 5 luglio 2011, nel caso D. c/M. - a rinnovare l'istruttoria dibattimentale perché ha rivalutato gli esiti della prova dichiarativa senza reinterpretarne il contenuto o l'attendibilità, ma valorizzando elementi trascurati dal primo giudice o suoi travisamenti nel valutare le dichiarazioni".In altri termini, la reformatio in pejus della sentenza di primo grado è derivata dall'esclusione delle finalità rieducative delle condotte dell'uomo, considerate gratuite e dovute solo "al carattere collerico e aggressivo, tanto che i figli vivevano in uno stato di timore e soggezione al punto di rifiutarsi di vederlo", il riconoscimento delle quali aveva invece condotto il tribunale all'assoluzione ritenendo assente una condotta abituale vessatoria e mancante il dolo unitario.
Tuttavia, la Corte non ha motivato, concludono dalla S.C., "circa la sussistenza del necessario elemento psicologico del dolo abituale, che caratterizza il reato di maltrattamenti, limitandosi a richiamare il generico criterio per il quale non è necessario uno specifico programma criminoso, ma è sufficiente la consapevolezza di persistere in un'attività vessatoria diretta a ledere la personalità della vittima, senza argomentare circa la coscienza e la volontà dell'imputato di persistere in un'attività vessatoria".
Per questa ragione, la sentenza va annullata con rinvio ad altra sezione per nuovo giudizio sul punto.
Cassazione, sentenza n. 17574/2017
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