Avv. Laura Bazzan - L'equa riparazione per ingiusta detenzione è un istituto disciplinato agli artt. 314 e 315 c.p.p. volto a ristorare, mediante un indennizzo, le conseguenze pregiudizievoli della limitazione della libertà personale sofferte da un soggetto per effetto di una misura custodiale, quando il procedimento penale si sia successivamente concluso con l'assoluzione con formula di merito (cd. ingiustizia sostanziale) ovvero quando la misura sia stata illegittimamente disposta, indipendentemente dall'esito di assoluzione o condanna (cd. ingiustizia formale).
Per la giurisprudenza di legittimità, si tratta di un diritto soggettivo pubblico che non ha natura risarcitoria, bensì compensativa di tutti i danni personali (morali, patrimoniali, fisici e psichici) prodotti dalla custodia cautelare in ragione della sua durata, che trova la sua fonte nell'obbligazione pubblica conseguente ad un'attività lecita posta in essere dallo Stato nell'esercizio di un potere autoritativo (cfr. Cass. n. 30321/2005).
Le ipotesi di applicazione dell'equa riparazione per ingiusta detenzione
Il diritto all'equa riparazione per indebita applicazione di misure restrittive della libertà personale spetta in ipotesi di:
- ingiustizia sostanziale o di merito (art. 314 c. 1 c.p.p.): ovvero sottoposizione a custodia cautelare o detenzione a causa di arresto in flagranza o fermo, quando sia successivamente intervenuta sentenza irrevocabile di proscioglimento perché il fatto non sussiste, per non aver commesso il fatto, perché il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, nonché, ai sensi dell'art. 314 c. 3 c.p.p., anche in caso di sentenza di non luogo a procedere e provvedimento di archiviazione;
- ingiustizia formale o cautelare (art. 314 c. 2 c.p.p.): ovvero sottoposizione a custodia cautelare, arresto o fermo in assenza delle condizioni di emissione o mantenimento della misura di cui agli artt. 273 e 280 c.p.p., accertata con decisione irrevocabile, quando sia successivamente intervenuta sentenza di assoluzione per qualsiasi causa ovvero sentenza di condanna.
La nozione di custodia cautelare come presupposto del diritto alla riparazione ricomprende, oltre alla misura carceraria, anche gli arresti domiciliari e la detenzione in luogo di cura. L'ingiusta detenzione, inoltre, è configurabile ex art. 313 c. 3 c.p.p. anche in ipotesi di applicazione provvisoria di misure di sicurezza.
I casi di esclusione
Come precisato dall'art. 314 c. 1 c.p.p., la riparazione è esclusa qualora l'interessato abbia dato causa all'ingiusta detenzione con proprio comportamento doloso o gravemente colposo. Quanto al dolo, ai fini dell'esclusione della riparazione, deve essere dimostrato che l'interessato si è rappresentato e ha voluto l'evento della privazione della propria libertà personale o, quantomeno, ne ha accettato il rischio; mentre per la colpa grave è necessario provare l'inosservanza di un diritto obiettivo di diligenza con la possibilità di prevedere che, la violazione di quella norma precauzionale, avrebbe cagionato l'evento (cfr. Cass. n. 1299/1994). Con particolare riferimento alla colpa grave dell'interessato, inoltre, la Corte di Cassazione ha avuto modo di precisare che anche il silenzio, ancorché diritto insindacabile dell'indagato e dell'imputato, può essere comportamento idoneo ad escludere l'indennizzo quando sia consistito nel mancato chiarimento della posizione dell'interessato per l'omessa allegazione di quelle circostanze a lui note atte a contrastare l'accusa o vincere le ragioni di cautela (cfr. Cass. n. 46772/2013).
L'indennizzo, inoltre, non è dovuto:
- per la parte di misura custodiale computata ai fini della determinazione della pena (art. 314 c. 4 c.p.p);
- per il periodo in cui la limitazione di libertà sia intervenuta anche in forza di altro titolo (art. 314 c. 4 c.p.p);
- per la parte di misura sofferta precedentemente all'abrogazione della norma incriminatrice che ne aveva giustificato l'applicazione (art. 314 c. 5 c.p.p.).
I criteri per la liquidazione del danno
Ai sensi dell'art. 315 c. 2 c.p.p., l'entità della riparazione non può superare i 516.456,90 euro. Tale limite costituisce la base di calcolo per la determinazione dell'indennità in concreto nella sua componente quantitativa, da suddividere per il termine massimo di durata della custodia ex art. 303 c. 4 c.p.p. al fine di ottenere l'importo dovuto per ciascun giorno di ingiusta detenzione.
Il criterio nummario, fissato dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione nella sentenza n. 24287/2001 con la formula 516.456,90 euro / 2.186 giorni = 235,82 euro, produce un parametro standard dal quale il giudice può discostarsi in aumento o in diminuzione, secondo una valutazione equitativa che tenga in considerazione "tutte le conseguenze pregiudizievoli che la durata della custodia cautelare ingiustamente subìta ha determinato per l'interessato". La previsione del limite normativo, pertanto, costituisce un vincolo insuperabile per il giudice nella liquidazione dell'indennità per le ulteriori conseguenze personali e familiari derivanti dall'ingiusta detenzione, non così il parametro giornaliero, al quale va commisurato l'indennizzo per il danno derivante dalla mera privazione della libertà personale e dalle conseguenze dirette da esse derivanti sulle attività e i rapporti personali (cfr. Cass. n. 10690/2010).
La natura indennitaria e non risarcitoria della riparazione esclude la sussistenza in capo al giudice di un obbligo a provvedere necessariamente ad una specificazione degli importi, che tengano eventualmente conto delle varie voci di danno, quando questi abbia comunque tenuto presenti tutte le possibili circostanze idonee a fissare un equo indennizzo (cfr. Cass. n. 2760/1997).
Oltre alla riparazione, il soggetto ingiustamente sottoposto a detenzione ha diritto ad una forma di risarcimento in forma specifica consistente nella piena reintegrazione nel posto di lavoro ex art. 102 disp. att. c.p.p.
Il procedimento
L'azione per ottenere la riparazione va promossa personalmente o per mezzo del difensore munito di procura speciale con ricorso avanti la Corte d'Appello territorialmente competente, da individuarsi ai sensi dell'art. 102 disp. att. c.p.p. in ragione del distretto cui appartiene il giudice che ha emesso la sentenza o il provvedimento di archiviazione. Quando la sentenza sia stata emessa dalla Corte di Cassazione, è competente la Corte d'Appello nel cui distretto è stato emesso il provvedimento impugnato. La domanda eventualmente presentata al giudice incompetente, tuttavia, non è inammissibile in quanto trova applicazione la disciplina di cui agli artt. 22 e ss. c.p.p. e, rilevata la propria incompetenza, il giudice erroneamente adito disporrà la trasmissione degli atti al giudice competente.
In caso di decesso del soggetto ingiustamente detenuto, il procedimento può essere instaurato dal coniuge, ascendenti e discendenti, fratelli e sorelle, affini entro il primo grado e persone legate da vincolo di adozione con quella deceduta, ai quali, in virtù del richiamo normativo all'art. 644 c.p.p., non può essere liquidato un importo superiore a quello che sarebbe stato riconosciuto al diretto interessato.
Il ricorso, a norma dell'art. 315 c. 1 c.p.p., deve essere depositato, a pena di inammissibilità, entro due anni dal giorno in cui la sentenza di proscioglimento o di condanna è divenuta irrevocabile, la sentenza di non luogo a procedere è divenuta inoppugnabile o è stato notificato il provvedimento di archiviazione all'interessato. La decisione viene assunta con ordinanza all'esito del procedimento in camera di consiglio ex art. 127 c.p.p. Avverso la stessa ordinanza, le parti possono proporre ricorso per Cassazione entro quindici giorni dalla notificazione o dalla comunicazione di deposito di cui all'art. 128 c.p.p.
In quanto compatibili trovano applicazione le norme sulla riparazione dell'errore giudiziario.
Vedi anche la guida "Legge Pinto: cosa prevede e come si presenta il ricorso"
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