di Valeria Zeppilli - Se la moglie insulta il marito nel corso di un procedimento che li vede contrapposti, non per questo è chiamata a rispondere penalmente del suo operato.
Con la sentenza numero 18647/2017 (qui sotto allegata), la Corte di cassazione si è infatti pronunciata su una vicenda che vedeva una donna imputata per le parole pronunciate nei confronti del marito in sede di consulenza tecnica di ufficio volta ad accertare la capacità genitoriale dell'uomo, riformando la condanna per diffamazione inflitta dal giudice dell'appello.
Ponendosi in contrasto con quanto ritenuto in secondo grado, infatti, i giudici di legittimità, con una ricca e articolata argomentazione, hanno ritenuto operante nel caso di specie l'esimente di cui all'articolo 598 del codice penale che sancisce la non punibilità delle offese contenute in scritti e discorsi pronunciati dinanzi alle autorità giudiziarie o amministrative.
Così facendo hanno chiarito che tale esimente ha un contenuto più ampio di quello della causa di giustificazione di cui all'articolo 51 del codice penale (dalla quale va tenuta ben distinta, al contrario di quanto fatto dal giudice del merito) e ricomprende manifestazioni che altrimenti rimarrebbero fuori dall'ambito di applicazione di quest'ultimo.
Ad esempio, con riferimento alla connessione con l'oggetto della causa, perché possa dirsi operante l'articolo 598 c.p. è sufficiente che tra l'espressione utilizzata e il tema del procedimento vi sia un collegamento logico-causale, potendosi prescindere da un collegamento obbligato. Il contenuto della norma, in altre parole, va "rapportato alla tesi dialettica, e non alla realtà storica, alla luce della quale valutare la stretta relazione delle frasi utilizzate".
Ciò vuol dire che il giudice penale, nel valutare l'applicabilità di tale esimente, deve verificare solo che gli argomenti addotti dall'imputato siano logicamente congruenti con la causa petendi, mentre a nulla rileva né la loro idoneità a conseguire il petitum, né la loro necessità. Peraltro non assume alcuna rilevanza neanche il requisito della verità delle affermazioni, poiché non opera l'esimente dell'esercizio del diritto della diffamazione a mezzo stampa, secondo la quale anche l'opinione critica deve avere un fondamento di verità.
A sostegno di tale assunto, la Cassazione ha anche ripreso quanto sancito dalla Corte costituzionale nella sentenza numero 128/1979, ribadendo che "altro è l'oggetto della causa in cui si formulano le offese che, ove consistano in attribuzioni rilevanti per la decisione, vanno riguardate sul piano della fondatezza (storica e giuridica), altro l'oggetto dell'accertamento penale, che ha per obiettivo la punizione del responsabile. Questo, data la ratio dell'esimente, è esclusivamente volto a verificare la collocazione di quelle offese nel contesto giudiziario, nel quale ha carattere decisivo la libertà di difesa, e la correlazione logica con la causa, dell'argomentazione che le reca, necessarie o non (e perciò, a fortiori, vere, o meglio fondate o non) che siano".
La Corte d'appello è quindi chiamata a un nuovo esame della vicenda.
Corte di cassazione testo sentenza numero 18647/2017• Foto: 123rf.com