di Marino Maglietta - La sentenza di Cassazione 11504/2017 ha recentemente riempito le cronache e i talk-show, con un clamore esaltato dalla 12196 uscita subito dopo, riguardante un noto uomo politico. I commenti sono stati prevalentemente favorevoli, pur con una riserva manifestata ripetutamente (ad es., Chiara Saraceno, Aiaf ecc.) e che non appare condivisibile, ovvero il timore che il coniuge che ha sacrificato l'esistenza per sostenere l'altro e crescere i figli si ritrovi in mezzo a una strada quando questi decide di troncare il rapporto. La Suprema Corte appare invece chiarissima sul rispetto del principio di solidarietà: in tali casi verranno assicurate condizioni di vita pienamente dignitose. Nulla quaestio.
Poco coltivato, invece, tranne rare eccezioni, il versante delle ricadute sulla famiglia separata, coniuge e figli, forse perché tutti si aspettavano quanto poi effettivamente espresso dalla Suprema Corte nella sopracitata sentenza. Un motivo in più per svolgere qualche ulteriore considerazione.
La "sorte" del coniuge separato
Iniziando dalla sorte del coniuge separato, una rilettura dell'art. 156 c.c. mette in evidenza che se il primo comma può rappresentare un criterio per stabilire l'an, ovvero se e quando il mantenimento spetti, indubbiamente e correttamente in questa prima parte mancano oggettivi e concreti riferimenti al quantum, il problema della cui determinazione è anticipato dall'espressione "adeguati redditi propri". Adeguati a cosa, in che senso? La risposta più ovvia è "sufficienti per il suo mantenimento". Ora, l'alternativa al mantenimento sono gli alimenti - definiti come le risorse essenziali per l'individuo - ai quali infatti si riferisce il comma terzo, all'interno dello stesso ragionamento. Resta quindi da cercare nel diritto come si possa definire e quantificare tale condizione. Il parametro che appare più affidabile e meno opinabile non può essere che nella Costituzione
stessa (art. 36): quanto sia "sufficiente ad assicurare un'esistenza libera e dignitosa". Arrivati a questo punto resta effettivamente una certa percentuale di indeterminatezza, potendosi intendere per la dignità della persona vari livelli di benessere. Ma è qui che soccorre il secondo comma dell'articolo 156 c.c.. sul quale la Suprema Corte non si sofferma, limitandosi sostanzialmente a citare se stessa: "l'orientamento consolidato di questa Corte in merito all'interpretazione dell'art. 156, comma 1, cod. civ." Ovvero si direbbe consapevole dell'origine giurisprudenziale del riferimento al tenore di vita. Tuttavia, superare una diversa e radicata tradizione è esattamente lo stesso ostacolo incontrato - e superato - da Cass. 11504, stessa sezione, con una fondamentale differenza, di natura prettamente giuridica, e non sociologica: che la legge sul divorzio fa riferimento alle condizioni dei coniugi e ai redditi di entrambi, al plurale. Mentre l'art. 156 comma 2 cita solo "i redditi dell'obbligato". Il che indirizza l'interprete nel primo caso effettivamente verso la vita e le risorse della coppia, mentre nel secondo c'è solo un obbligo di soccorso che arriva dall'esterno per motivi di solidarietà.E c'è un altro motivo, forse ancor più rilevante, che conforta la tesi che la legge non prevede la necessità di assicurare lo stesso tenore di vita: neppure il secondo comma invoca il passato, ma, al contrario, mette accanto ai bisogni del beneficiario le possibilità attuali dell'obbligato. Una differenza fondamentale. Difatti, finora pressoché costantemente si è fornita dell'obbligo un'interpretazione esclusivamente al rialzo, ovvero quanto necessario per una vita dignitosa è stato posto in alternativa con un benessere superiore. Ma il testo di legge si esprime diversamente. Tenere conto dei redditi dell'obbligato vuol dire anche che questi - certamente nell'atttuale lunga fase economica negativa e soprattutto dopo una separazione, che impoverisce l'intero nucleo familiare - potrebbe non avere risorse sufficienti per vivere lui stesso decorosamente. Quindi potrebbe voler dire che l'assegno che verrà corrisposto sarà misurato in funzione dell'oggi, a prescindere da quanto ha preceduto la rottura, trovando un limite nelle risorse economiche dell'obbligato, anziché un vantaggio.
In definitiva, partendo dal testo di legge e considerando quest'ultima considerazione come una replica a tutte le altre svolte in Cass. 12196 (fondate sulla differente condizione giuridica del separato rispetto al divorziato), il riferimento al tenore di vita non c'è, mentre nulla impediva al legislatore di nominarlo: ubi voluit, dixit. Avrebbe potuto scrivere "L'entità di tale somministrazione è determinata in relazione al tenore di vita goduto in costanza di matrimonio". Ma non lo ha fatto. Ecco allora che il combinato disposto degli artt 156 e 337 ter comma IV c.c. getta nuova luce sulla interpretazione. Sì, perché il legislatore del 2006 il tenore di vita lo ha invocato, anche se operativamente nel modo più infelice. Un modo, tuttavia, che rende più credibile l'interpretazione di cui sopra, che vede nel riferimento alle risorse dell'obbligato un limite superiore anziché un illimitato sfondamento veso l'alto. Difatti, salvo casi eccezionali, il fabbisogno di un figlio che cresce è in costante aumento, per cui il riferimento alle "attuali esigenze del figlio" di cui al primo comma del medesimo articolo rappresenta tipicamente un valore massimo, rispetto al quale non conviene introdurre variazioni, perché sarebbero con tutta probabilità al ribasso. Non conviene al beneficiario.
Il mantenimento del figlio minorenne
Tutto ciò porta a concludere che se, per motivi di inopportunità e inadeguatezza, oltre che di analogia legis, si tende oggi ad accantonare il riferimento al tenore di vita per il coniuge divorziato, a maggior ragione quel parametro dovrebbe uscire prima dall'applicazione poi, possibilmente, dal codice, per il mantenimento del figlio minorenne. Tutta la materia, in effetti, avrebbe bisogno di un ripensamento legislativo che la affronti aggiornandola in termini chiari ed espliciti, accrescendo la certezza dei diritti e delle aspettative, al di fuori di mutevoli interpretazioni ed umori.
In concreto, ora che si è ridotto sensibilmente l'intervallo di tempo tra separazione e divorzio appare ancor più ragionevole che i due istituti siano mantenuti agganciati, come di regola avviene, e che per essi valgano i medesimi criteri, al di là di distinzioni accademicamente fondamentali (come quella che dopo la separazione si è ancora coniugati e dopo il divorzio no), ma che la popolazione non percepisce e non vive, del tutto comprensibilmente. In pratica, non appare ragionevole che alla separazione siano stabiliti assegni ben al di sopra del necessario per l'indipendenza economica, che al divorzio, ovvero dopo pochi mesi, possono ridursi drasticamente. Fermo restando il principio di solidarietà costituzionalmente garantito, nel contesto sociale attuale, che vede mediamente la donna andare al matrimonio a 31 anni e l'uomo a 35, ossia dopo che ciascuno ha dato alla propria esistenza l'impostazione da lui voluta, i criteri di riferimento per fissare l'entità del contributo sembrano richiedere un ripensamento. Si può scegliere di iniziare a lavorare e guadagnare immediatamente oppure proseguire gli studi per anni con sacrificio proprio e della propria famiglia; affrontare le ansie e l'impegno di severi concorsi, oppure risparmiarseli; assumere quotidiamente rilevanti responsabilità in sala operatoria o in un cantiere, con i relativi rischi, oppure svolgere una tranquilla attività da scrivania. Non appare né opportuno né equo che, ad es., l'alta magistrata che ha sposato un maestro elementare debba in sostanza dividere a metà il proprio stipendio perché questi possa continuare a godere dello stesso tenore di vita. Forse il parametro generale più ragionevole - con tutte le eccezioni del caso - che potrebbe essere adottato per entrambi i momenti potrebbe essere il livello sociale che il beneficiario stesso aveva destinato a se stesso se non si fosse coniugato. La parola al legislatore.
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