Rimangono sì le opere, gli allievi camminano per il mondo a spargere i semi del suo insegnamento, ma bisogna prendere purtroppo atto che Stefano Rodotà ora non c'è più.
Ci ha insegnato ad amare la democrazia e i suoi pilastri.
Ha appuntato la nostra attenzione sui diritti fondamentali della persona.
Ha trascorso ogni momento della sua vita sorretto da un'autentica vocazione civile. Responsabilità e servizio verso la polis.
Aveva scelto un passo di pag. 413 del classico della filosofia politica, Le origini del totalitarismo di Hannah Arendt, per intitolare quello che forse è il suo saggio più popolare: Il diritto di avere diritti, edito da Laterza.
Sua, interamente, la narrazione del mondo nuovo dei diritti per sfuggire alla retorica e guardarli finalmente nella materialità delle situazioni, nel concreto quotidiano.
Sotto quest'ultimo profilo se ne va il più grande giurista vivente.
Stefano ha, infatti, lasciato una traccia indelebile, in particolare nel diritto civile, ove ha rivisitato il diritto di proprietà, il diritto contrattuale, la responsabilità civile, il diritto costituzionale.
Ci ha insegnato a leggere la giurisprudenza multilivello e senza frontiere; ci ha fatto comprendere che il diritto ha un limite se abbiamo l'ambizione di esportare la democrazia.
Peccato non averlo eletto Presidente della Repubblica al posto dell'impensabile bis di Napolitano.
Anche in questo destini paralleli con Norberto Bobbio: un'Italia che non sa giovarsi appieno delle sue voci più autorevoli.
Nel mondo del web ci ha aperto gli occhi sulla dittatura dell'algoritmo e ci ha illustrato le prerogative della persona.
Ha con noi difeso la cittadella assediata e la nostra Costituzione, Maestro di libertà, sempre!
Ci ha insegnato che, se diventano difficili i tempi per la solidarietà, ch'è un'utopia necessaria, lo divengono anche per la democrazia.
Ora dobbiamo cavarcela da soli.
• Foto: By Niccolò Caranti - Own work, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=26564225