di Lucia Izzo - La circostanza che sia stato l'indagato per stalking a chiudere di sua iniziativa il rapporto con la vittima, non è incompatibile con l'atteggiamento geloso e morboso denunciato dalla persona offesa e che ha fatto scattare i provvedimenti cautelari per il reato di cui all'art. 612-bis.
La vicenda
Lo ha disposto la Corte di Cassazione, quinta sezione penale, nella sentenza n. 33012/2017 (qui sotto allegata) con cui ha dichiarato inammissibile il ricorso avanzato da un uomo, che si era visto rigettare la richiesta di riesame nei confronti del provvedimento con cui il G.I.P. gli aveva applicato gli arresti domiciliari per il delitto di stalking.
Tra i motivi a sostegno del ricorso in Cassazione emerge la doglianza secondo cui, in sede di merito, non era stato tenuto conto del fatto che era stato proprio lui a interrompere la relazione sentimentale e non la vittima a causa dell'asserito comportamento morboso dell'indagato.
Inoltre, la stessa parte offesa, secondo il ricorrente, aveva tentato di contattarlo più volte e a cercarlo al cellulare. Dagli sms da lui inviati, inoltre, non risultavano minacce di morte all'indirizzo della donna e dei suoi amici, in quanto si desumeva chiaramente che egli si limitava a rispondere, forse focosamente, alle provocazioni e alle domanda della ragazza.
Stalking: ininfluente che sia stato lo stalker a interrompere la relazione
Premesso che le motivazioni appaiono generiche, prive di correlazione con specifiche evidenze probatorie e mirano a sollecitare inammissibilmente una rivalutazione del fatto non consentita da parte della Cassazione, i giudici ritengono che il provvedimento impugnato descriva puntualmente una serie di comportamenti, determinati da una gelosia morbosa, posti in essere dal ricorrente. Ancora, si tiene conto del fatto che l'uomo avesse scelto di interrompere la relazione, non risparmiando neppure in quell'occasione gli insulti e le minacce.
Pertanto, si legge nel provvedimento, nel fatto così ricostruito non sussiste alcuna incompatibilità logica tra la gelosia morbosa e ossessionante dell'indagato e la chiusura del rapporto di sua iniziativa, peraltro accompagnata e seguita da un crescendo impressionante di molestie e minacce (scritte sui muri, lancio di sassi minacce ai vicini di casa, incendio dell'autovettura di un accompagnatore occasionale della vittima).
L'ordinanza impugnata reca anche puntuale riferimento ai messaggi intimidatori e offensivi, recanti ripetute e inequivoche minacce mortali, che la parte offesa ha mostrato e che, assieme alle dichiarazioni accusatorie, costituirebbero comunque un valido compendio indiziario almeno in sede cautelare.
Inoltre, inutile per l'uomo affermare che la vittima aveva mantenuto il proprio stile di vita e le proprie frequentazioni, inclusi i locali in cui vi era possibilità di incongro e aveva più vole preso l'iniziativa di contattarlo per riprendere la relazione.
Un costante orientamento giurisprudenziale afferma che l'accertamento dello stato d'ansia o di paura denunciato dalla vittima del reato può fondarsi su elementi sintomatici del turbamento psicologico ricavabili dalle dichiarazioni della stessa vittima, dai suoi comportamenti conseguenti alla condotta posta in essere dall'agente e anche da quest'ultima se idonea a determinare in una persona comune tale effetto destabilizzante, sia in astratto, sia in concreto in riferimento alle effettive condizioni di luogo e di tempo in cui è stata consumata.
Quindi, ai fini della prova dello stato d'ansia o di paura denunciato dalla vittima il giudice ben può argomentare la sussistenza degli effetti destabilizzanti sull'equilibrio psichico della persona offesa a causa della condotta dell'agente anche in base a massime di esperienza. Nella specie le condotte illustrate appaiono pienamente idonee secondo l'id quod plerumque accidit a ingenerare uno stato di ansia e di paura in una persona normale.
Cass., V sez. pen., sent. 33012/2017