Avv. Giampaolo Morini - L'esigenza di salvaguardare un giusto equilibrio economico e normativo tra le prestazioni e tra le prerogative e i vincoli rispettivi dei contraenti è certo più attendibile e di più immediata comprensione se ricondotta alla formula della giustizia commutativa. Non pare invero sensato assumere il contratto, e il suo controllo e adeguamento giudiziale, a strumento per modificare gli assetti distributivi della ricchezza in senso perequativo.
La giustizia commutativa
In primo luogo, si affiderebbe la funzione distributiva alla spontaneità, occasionalità dei contatti contrattuali, alla varietà delle loro circostanze, anche relative alle consistenze patrimoniali dei singoli contraenti e alla dimensione economica dei singoli scambi, oltre che alla natura dei beni che ne costituiscono l'oggetto, e ne deriverebbero quindi effetti redistributivi casuali, non uniformi, disordinati, e quindi in senso generale iniqui oltre che inefficienti. Inoltre, poiché la salvaguardia di valori di giustizia commutativa si riflette in effetti conservativi della consistenza patrimoniale dei contraenti anteriore alla stipulazione, piegare indiscriminatamente il contratto al perseguimento di finalità redistributive implicherebbe il paradosso di interventi impositivi di effetti economici contrattuali in senso commutativo sperequati.
Le connessioni tra giustizia contrattuale commutativa e distributiva
Non mancano tuttavia tentativi di stabilire connessioni tra giustizia contrattuale commutativa e distributiva e di valorizzare la seconda anche rispetto a un sindacato giudiziale sui contenuti del contratto.
Certo, l'effetto cumulativo di una indefinita pluralità di contratti sperequati può nuocere a una giusta distribuzione della ricchezza tra i consociati, particolarmente a ragione della probabilità statistica che le singole sperequazioni si manifestino in pregiudizio di soggetti e ceti già penalizzati dall'assetto distributivo preesistente alle operazioni contrattuali. Ma tale considerazione può solo indurre ad assumere che la salvaguardia della giustizia commutativa possa contrastare il deterioramento ulteriore delle sperequazioni distributive, non già che essa sia strumento efficace per correggere queste ultime.
Nel primo caso, il sindacato giudiziario dovrebbe presupporre una direttiva di controllo autoritativo generalizzato delle condizioni economiche di scambio di determinati beni e servizi. Tale direttiva può però esprimersi in modo più appropriato mediante discipline legislative o amministrative di prezzi e tariffe, le quali, operando in modo uniforme per categorie di beni e servizi scambiati, e per categorie di contraenti, assicurano un'applicazione omogenea. In mancanza di una direttiva siffatta, l'intervento del giudice assumerebbe un ruolo di supplenza che si porrebbe in contrasto con l'opzione non interventista dell'ordinamento. Mentre, in tal modo, non sarebbe assicurata l'omogeneità delle determinazioni autoritative dei contenuti contrattuali, con evidenti conseguenze di disuguaglianza nell'àmbito di entrambe le categorie di contraenti: quella dei venditoriesercenti e quella degli acquirentiutenti.
Nel secondo caso, l'onere dell'intervento distributivo verrebbe a gravare in modo causale sui venditori ed esercenti che si trovino a contrattare con soggetti le cui condizioni economiche pongano in causa il loro tenore di vita minimo, mentre ne resterebbero immuni coloro che contrattino con soggetti che non versino in tali situazioni. Ne conseguirebbe il rischio che ne restino pregiudicate le stesse categorie che si vorrebbero proteggere, ben potendo immaginarsi il ricorso a cautele precontrattuali e a rifiuti di contrarre da parte dei venditori ed esercenti; e per ovviarvi occorrerebbe apprestare strumenti di coercizione a contrarre, certo più coerenti a normative autoritative che non ad un sistema di controlli affidati ai giudici.
In tal senso, dunque, il perseguimento di finalità di realizzazione di valori di giustizia distributiva sembra poter essere attendibilmente demandato solo a interventi legislativi e di governo che, in materia contrattuale, possono esprimersi in termini di definizione autoritativa dei corrispettivi di beni e servizi ovvero in limitazioni dell'autonomia in ordine alla pattuizione di determinate tipologie di clausole. Possono, a quest'ultimo riguardo, configurarsi àmbiti valutativi del giudice definiti dalla stessa disciplina autoritativa, come accade nella legislazione in materia di contratti dei consumatori; ma, per le ragioni già accennate, non sembra attendibile perché non realistico, non efficace, casuale, non omogeneo, e quindi in definitiva non equo un sindacato giudiziario, generalizzato e svincolato da direttive legislative, volto a piegare il contratto a strumento di realizzazione di valori di giustizia distributiva interpretati e attuati secondo un'autonoma valutazione del giudice.
Se ci si volge all'eventualità di un sindacato giudiziario sul contenuto del contratto orientato all'attuazione di valori di giustizia commutativa, sorge innanzitutto un'alternativa: si tratta di valutare la conformità a giustizia del l'equilibrio economico e normativo considerato di per se stesso, ovvero in rapporto a circostanze del negoziato, a condizioni dei contraenti e alla loro condotta nella fase precontrattuale e formativa? è, in tal senso, in questione una substantive fairness o una procedural fairness? Interessa qui soffermarsi sulla prima alternativa, essendo la seconda meno problematica rispetto ai profili che andiamo ora considerando, perché più agevolmente riconducibile a un più solido terreno di valutazioni giuridiche, orientate da definizioni normative di fattispecie o, quantomeno, da collaudate clausole generali riferite a comportamenti.
Avv. Giampaolo Morini
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