Per la Cassazione deve emergere il carattere calunnioso della denuncia sporta dal dipendente o la consapevolezza della insussistenza dell'illecito
di Lucia Izzo - Non integra giusta causa o giustificato motivo soggettivo di licenziamento la condotta del lavoratore che denunci all'autorità giudiziaria competente fatti di reato commessi dal datore di lavoro, a meno che non risulti il carattere calunnioso della denuncia o la consapevolezza della insussistenza dell'illecito, e sempre che il lavoratore si sia astenuto da iniziative volte a dare pubblicità a quanto portato a conoscenza delle autorità competenti.
A dimostrare il carattere calunnioso della denuncia, inoltre, non basta a di per sé sola la circostanza che questa si riveli infondata e che il procedimento penale venga definito con la archiviazione della "notitia criminis" o con la sentenza di assoluzione. Tanto ha stabilito la Corte di Cassazione, sezione lavoro, nella sentenza n. 22375/2017 (qui sotto allegata).
Atteggiamento da cui era scaturito il licenziamento, posto che la condotta era stata idonea a ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario e fosse tanto grave dal punto di vista oggettivo e soggettivo da escludere una sanzione conservativa. Per la Corte territoriale era irrilevante che, dalla condotta della lavoratrice, non fosse derivato alcun danno all'immagine della società.
Ciò, tuttavia, condizione che non emerga il carattere calunnioso della denuncia medesima, che richiede la consapevolezza da parte del lavoratore della non veridicità di quanto denunciato e, quindi, la volontà di accusare il datore di lavoro di fatti mai accaduti o dallo stesso non commessi, e che il lavoratore si sia astenuto da iniziative volte a dare pubblicità a quanto portato a conoscenza delle autorità competenti.
In sostanza, spiega il Collegio, va escluso che l'obbligo di fedeltà di cui all'art. 2105 c.c. possa estendersi al punto di imporre al lavoratore di astenersi dalla denuncia di fatti illeciti che egli ritenga essere stati consumati all'interno dell'azienda, altrimenti si rischierebbe di scivolare verso il riconoscimento di una sorta di "dovere di omertà" che, ovviamente, non può trovare la benché minima cittadinanza nel nostro ordinamento
Stante la presenza e la valorizzazione di interessi pubblici superiori (come quello della collaborazione del cittadino in caso di violazione della legge penale) deve escludersi che, nell'ambito del rapporto di lavoro, la sola denuncia all'autorità giudiziaria di fatti astrattamente integranti ipotesi di reato, possa essere fonte di responsabilità disciplinare e giustificare il licenziamento per giusta causa, fatta eccezione per l'ipotesi in cui l'iniziativa sia stata strumentalmente presa nella consapevolezza della insussistenza del fatto o della assenza di responsabilità del datore.
Affinché sorga responsabilità disciplinare non basta, infatti, che la denuncia si riveli infondata e che il procedimento penale venga definito con la archiviazione della "notitia criminis" o con la sentenza di assoluzione, trattandosi di circostanze non sufficienti a dimostrare il carattere calunnioso della denuncia stessa.
A differenza delle ipotesi in cui è in discussione l'esercizio del diritto di critica, nelle ipotesi di denuncia e di querela non rilevano i limiti della continenza sostanziale e formale, superati i quali la condotta assume carattere diffamatorio.
La valutazione in ordine alla ricorrenza della giusta causa e al giudizio di proporzionalità della sanzione espulsiva deve essere operata con riferimento agli aspetti concreti afferenti alla natura e alla utilità del singolo rapporto, alla posizione delle parti, al grado di affidamento richiesto dalle specifiche mansioni del dipendente, al nocumento eventualmente arrecato, alla portata soggettiva dei fatti stessi, ossia alle circostanze del loro verificarsi, ai motivi e all'intensità dell'elemento intenzionale o di quello colposo.
Tuttavia, precisano i giudici, le disposizioni contenute nei contratti collettivi in punto di tipizzazioni degli illeciti disciplinari non possono essere disattese dal giudice.
Nel caso di specie, poiché la Corte territoriale si è limitata a formulare un giudizio di gravità della condotta addebitata alla lavoratrice, valutando solo il fatto che le accuse si erano rivelate infondate, la rivalutazione della causa, seguendo i principi stabiliti in sentenza, è affidata al giudice del rinvio.
Cass., sezione lavoro, sent. n. 22375/2017
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A dimostrare il carattere calunnioso della denuncia, inoltre, non basta a di per sé sola la circostanza che questa si riveli infondata e che il procedimento penale venga definito con la archiviazione della "notitia criminis" o con la sentenza di assoluzione. Tanto ha stabilito la Corte di Cassazione, sezione lavoro, nella sentenza n. 22375/2017 (qui sotto allegata).
Il caso
>La Corte d'Appello aveva respinto il ricorso di una lavoratrice contro la società datrice volto, tra l'altro, alla dichiarazione di illegittimità del licenziamento intimatole per giusta causa. Alla donna era contestato di aver presentato una denuncia-querela, archiviata in sede penale, nei confronti del legale rappresentante della società datrice di lavoro, con accuse non veritiere.Atteggiamento da cui era scaturito il licenziamento, posto che la condotta era stata idonea a ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario e fosse tanto grave dal punto di vista oggettivo e soggettivo da escludere una sanzione conservativa. Per la Corte territoriale era irrilevante che, dalla condotta della lavoratrice, non fosse derivato alcun danno all'immagine della società.
Niente licenziamento per la sola denuncia sporta dal dipendente
Da qui il ricorso in Cassazione che viene, in parte accolto: gli Ermellini danno continuità all'orientamento con cui la Corte ha valutato condotte analoghe a quella addebitata alla ricorrente, escludendo che la denuncia di fatti di potenziale rilievo penale accaduti nell'azienda possa integrare giusta causa o giustificato motivo soggettivo di licenziamento.Ciò, tuttavia, condizione che non emerga il carattere calunnioso della denuncia medesima, che richiede la consapevolezza da parte del lavoratore della non veridicità di quanto denunciato e, quindi, la volontà di accusare il datore di lavoro di fatti mai accaduti o dallo stesso non commessi, e che il lavoratore si sia astenuto da iniziative volte a dare pubblicità a quanto portato a conoscenza delle autorità competenti.
In sostanza, spiega il Collegio, va escluso che l'obbligo di fedeltà di cui all'art. 2105 c.c. possa estendersi al punto di imporre al lavoratore di astenersi dalla denuncia di fatti illeciti che egli ritenga essere stati consumati all'interno dell'azienda, altrimenti si rischierebbe di scivolare verso il riconoscimento di una sorta di "dovere di omertà" che, ovviamente, non può trovare la benché minima cittadinanza nel nostro ordinamento
Stante la presenza e la valorizzazione di interessi pubblici superiori (come quello della collaborazione del cittadino in caso di violazione della legge penale) deve escludersi che, nell'ambito del rapporto di lavoro, la sola denuncia all'autorità giudiziaria di fatti astrattamente integranti ipotesi di reato, possa essere fonte di responsabilità disciplinare e giustificare il licenziamento per giusta causa, fatta eccezione per l'ipotesi in cui l'iniziativa sia stata strumentalmente presa nella consapevolezza della insussistenza del fatto o della assenza di responsabilità del datore.
Affinché sorga responsabilità disciplinare non basta, infatti, che la denuncia si riveli infondata e che il procedimento penale venga definito con la archiviazione della "notitia criminis" o con la sentenza di assoluzione, trattandosi di circostanze non sufficienti a dimostrare il carattere calunnioso della denuncia stessa.
A differenza delle ipotesi in cui è in discussione l'esercizio del diritto di critica, nelle ipotesi di denuncia e di querela non rilevano i limiti della continenza sostanziale e formale, superati i quali la condotta assume carattere diffamatorio.
La valutazione in ordine alla ricorrenza della giusta causa e al giudizio di proporzionalità della sanzione espulsiva deve essere operata con riferimento agli aspetti concreti afferenti alla natura e alla utilità del singolo rapporto, alla posizione delle parti, al grado di affidamento richiesto dalle specifiche mansioni del dipendente, al nocumento eventualmente arrecato, alla portata soggettiva dei fatti stessi, ossia alle circostanze del loro verificarsi, ai motivi e all'intensità dell'elemento intenzionale o di quello colposo.
Tuttavia, precisano i giudici, le disposizioni contenute nei contratti collettivi in punto di tipizzazioni degli illeciti disciplinari non possono essere disattese dal giudice.
Nel caso di specie, poiché la Corte territoriale si è limitata a formulare un giudizio di gravità della condotta addebitata alla lavoratrice, valutando solo il fatto che le accuse si erano rivelate infondate, la rivalutazione della causa, seguendo i principi stabiliti in sentenza, è affidata al giudice del rinvio.
Cass., sezione lavoro, sent. n. 22375/2017
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