di Marina Crisafi - Quando vi è estorsione e quando esercizio arbitrario delle proprie ragioni? A fare il punto è la Cassazione, cogliendo l'occasione nel pronunciarsi in una vicenda che ha per protagonista un uomo imputato per reati di tentata estorsione e lesioni, quale mandante di richieste di denaro e pestaggio eseguito da altri soggetti ai danni della persona offesa.
La vicenda
L'uomo invoca l'intervento dei giudici del Palazzaccio lamentando, tra l'altro, l'errata qualificazione giuridica del reato di tentata estorsione che avrebbe dovuto invece essere ricondotto all'ipotesi di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, in virtù dei rapporti lavorativi intercorrenti tra le parti e del fatto che il pestaggio, viste le modalità con cui era stato eseguito, non poteva andare oltre i limiti del reato di cui all'art. 393 c.p., posto che la distinzione tra i due reati andava vista soltanto a seconda della giustizia o meno del profitto perseguito.
Per la Cassazione (sentenza n. 44234/2017, sotto allegata), tuttavia, il ricorso è infondato.
Estorsione ed esercizio arbitrario delle proprie ragioni, le differenze
Escludendo innanzitutto la fondatezza delle censure sull'errata valutazione del materiale probatorio, ritenendola una mera rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione dei giudici di merito e, dunque, preclusa ai giudici di legittimità, gli Ermellini si concentrano sulla doglianza relativa alla distinzione tra i due reati.
Il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, sia con violenza sulle cose che sulle persone, ricordano, dunque, "rientra, diversamente da quello di estorsione, tra i cosiddetti reati propri esclusivi o di mano propria, perciò configurabili solo se la condotta tipica è posta in essere da colui che ha la titolarità del preteso diritto". Ne deriva che, "in caso di concorso di persone nel reato, solo ove la condotta tipica di violenza o minaccia sia posta in essere dal titolare del preteso diritto è configurabile il concorso di un terzo estraneo nell'esercizio arbitrario delle proprie ragioni (per agevolazione, o anche morale), mentre, qualora la condotta sia realizzata da un soggetto diverso dal creditore, essa può assumere rilievo soltanto ai sensi dell' art. 629 cod. pen.".
Nel caso di specie, invece, le modalità esecutive dell'"agguato" andavano ben oltre "i limiti della ragion fattasi" e assumevano "i contorni di una spedizione finalizzata a punire - la vittima - anche per il sospetto di una possibile collaborazione con le forze dell'ordine".
Nel paradigma dell'esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone, "la modalità strumentale, violenta o minacciosa - invece - non può trasmodare in manifestazioni sproporzionate e gratuite, in intima contraddizione con l'elemento psicologico della fattispecie condensato nella convinzione dell'esercizio, sia pure solo preteso, di un diritto".
La pretesa arbitrariamente attuata dall'agente, quindi, concludono dal Palazzaccio dichiarando inammissibile il ricorso, "deve corrispondere perfettamente all'oggetto della tutela apprestata in concreto dall'ordinamento giuridico, e ciò che caratterizza il reato è pertanto la sostituzione, operata dall'agente, dello strumento di tutela pubblico con quello privato: ne consegue che nel delitto di cui all'art. 393 cod. pen., la condotta violenta o minacciosa non è mai fine a sé stessa, ma è strettamente connessa alla finalità dell'agente di far valere il preteso diritto, rispetto al cui conseguimento si pone come elemento accidentale, e pertanto non può mai consistere in manifestazioni del tutto incompatibili con il ragionevole intento di far valere un diritto".
Cassazione, sentenza n. 44234/2017
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