di Lucia Izzo - Non è integrata diffamazione nei confronti del lavoratore se il superiore gerarchico si limita, seppur con toni pesantemente aspri, a contestare il dipendente avendo riguardo unicamente alla sua condotta professionale, senza sfociare in una censura diretta alla persona quale individuo in sé considerato.
Lo ha precisato la Corte di Cassazione, quinta sezione penale, sentenza n. 52578/2017 (qui sotto allegata), rigettando il ricorso della parte civile contro la sentenza che aveva assolto l'imputata dal reato di diffamazione a suo danno poiché "il fatto non costituisce reato".
La vicenda
In particolare il ricorrente aveva contestato alla donna, sua superiore gerarchico del ricorrente, si aver offeso la sua reputazione in una lettera inviata al Ministero dei Beni culturali, quale comune datore di lavoro.
Nel carteggio la superiore aveva scritto che la parte civile aveva eluso, omesso e ostacolato ogni sua direttiva e aveva arrecato, tramite una vera e propria campagna denigratoria nei suoi confronti, grave nocumento alla sua dignità personale e professionale, all'immagine dell'Istituto e agli interessi dei lavoratori, non potendo, infine, transigere sulla lentezza e inescusabile negligenza della parte offesa ad adempiere ai suoi doveri lavorativi, al punto da giudicarla inadeguata a ricoprire incarichi di responsabilità.
Nel ricorso per Cassazione, la parte offesa ritiene sia stata erroneamente riconosciuta dal giudice a quo la scriminante del diritto di critica.
Niente diffamazione se il superiore critica la condotta professionale del dipendente
Posto che il rapporto di cui è causa si innesta nella disciplina del Pubblico impiego, regolato da una legge dello Stato, gli Ermellini richiamano il consolidato orientamento secondo cui "il potere gerarchico o, comunque, di sovraordinazione, non consente di esorbitare dai limiti della correttezza e del rispetto della dignità umana con espressioni che contengano un'intrinseca valenza mortificatrice della persona e si dirigano, più che all'azione censurata, alla figura morale del dipendente, traducendosi in un attacco personale sul piano individuale, che travalichi ogni ammissibile facoltà di critica".
Sul punto, è dunque essenziale accertare se l'espressione pronunciata dal titolare di una posizione sovraordinata si sia limitata alla censura di una determinata condotta lavorativa o professionale del sottoposto, oppure, pur prendendo spunto da essa, sia trasmodata in un attacco personale all'individuo.
Infatti, non esorbitano dall'area della liceità penale le contestazioni che non censurano la persona in sé e per sé considerata, bensì la condotta professionale del dipendente. Ed è proprio quanto ha evidenziato la sentenza impugnata affermando che nella lettera "incriminata" non era stato oltrepassato il limite della continenza e non erano comparse valutazioni gratuite sulla persona o sulla condotta in generale della parte civile.
Ciò che la lettera ha valutato in modo pesantemente negativo e con toni aspri è stata la condotta lavorativa del ricorrente, al quale è stato rimproverato, oltre che uno scarso rendimento in uno specifico settore lavorativo, un atteggiamento improntato a marcata ostilità nei confronti della stessa dirigente. Le doglianze, pertanto, non meritano accoglimento.
Cass., V sez. pen., sent. n. 52578/2017• Foto: 123rf.com