di Valeria Zeppilli - Affinché possa parlarsi di mobbing, è necessario che le condotte del datore di lavoro in danno del proprio dipendente siano persecutorie, sistematiche e ripetute in un arco di tempo breve.
Per la sezione lavoro della Corte di cassazione, come si evince dalla sentenza numero 28098/2017 del 24 novembre (qui sotto allegata), non è possibile contestare al datore dei singoli episodi che sono avvenuti a distanza di anni.
La vicenda
Sulla base di tale considerazione, i giudici hanno respinto le doglianze di un lavoratore che chiedeva il risarcimento del danno da mobbing in ragione dell'esercizio del potere disciplinare da parte del datore di lavoro che, a suo dire, sarebbe stato caratterizzato da modalità contestabili e da un' inusitata frequenza.
In realtà, però, si trattava di quattro episodi circoscritti tra giugno e ottobre 2005 e distaccati nel tempo sia dalle due ulteriori contestazioni disciplinari dell'ottobre 2003 che dalla contestazione, non seguita da sanzione, del novembre 2006 e da quella, dichiarata giudizialmente illegittima, del settembre 2007.
Per la Corte ci si trova, quindi, di fronte a episodi "sforniti del carattere della sistematicità, della durata dell'azione e non collegati tra loro da un medesimo intento persecutorio" e, in quanto tali, inidonei a configurare mobbing.
I parametri del mobbing
Manca, infatti, almeno uno dei quattro parametri richiesti per potersi parlare di mobbing lavorativo, che sono stati individuati dalla giurisprudenza nei seguenti:
- una serie di comportamenti di carattere persecutorio posti in essere contro la vittima, con intento vessatorio, in modo miratamente sistematico e prolungato,
- la lesione della salute, della personalità o della dignità del dipendente,
- il nesso eziologico tra le condotte e il pregiudizio,
- l'intento persecutorio unificante tutti i comportamenti lesivi.
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Corte di cassazione testo sentenza numero 28098/2017