di Valeria Zeppilli - Il medico odontoiatra che, nell'esercizio della propria attività professionale, non adempie esattamente la prestazione di cura dovuta nei confronti del paziente in forza del contratto d'opera concluso tra le parti e viola le leges artis connesse al trattamento allo stesso demandato è tenuto a risarcire il danno cagionato.
Su tale aspetto, chiaramente pacifico, la Corte di cassazione si è soffermata con la recente sentenza numero 29341/2017 (qui sotto allegata), confrontandosi con una questione collaterale particolare: che margini di discrezionalità ha il giudice nel determinare il risarcimento del danno rispetto alla consulenza tecnica d'ufficio espletata sul paziente?
Percentuale invalidità moltiplicata
Nel caso di specie, infatti, i giudici del merito, sia in primo che in secondo grado, avevano aumentato l'entità della percentuale di invalidità permanente riconosciuta dal Ctu e tale circostanza non era stata accettata dal dentista che, pertanto, si era rivolto alla Cassazione asserendo che, in assenza di alcuna idonea motivazione a fondamento della predetta decisione, la stessa dovesse ritenersi ingiustificata.
La Cassazione, dinanzi a simili doglianze, le ha tuttavia respinte cogliendo l'occasione per ricordare che le valutazioni che il Ctu esprime all'esito della propria indagine non assumono alcuna efficacia vincolante per il giudice che può legittimamente disattenderle. Nel farlo, in ogni caso, il giudicante deve giustificare la propria valutazione, diversa rispetto a quella del consulente, "attraverso un esame critico che sia ancorato alle risultanze processuali e risulti congruamente e logicamente motivato".
In particolare, è necessario che il giudice indichi:
- gli elementi di cui si è avvalso per ritenere erronei gli argomenti del c.t.u.,
- i criteri di valutazione e gli argomenti logico-giuridici utilizzati per giungere alla propria decisione.
Nella pronuncia impugnata, il giudice aveva adempiuto a tale onere, ritenendo che l'invalidità permanente fosse diversa rispetto a quella indicata dal c.t.u. (e andasse liquidata in via equitativa) in ragione degli elementi dentari persi per effetto dell'inadempimento del medico e dell'invalidità permanente residuata al paziente alla luce dell'impossibilità di applicare protesi fisse.
La quantificazione del danno in difformità rispetto a quanto indicato dal consulente, quindi, non può che essere confermata.
Corte di cassazione testo sentenza numero 29341/2017