di Roberto Cataldi - Da oggi il Biotestamento è regolato da una legge che, una volta per tutte, ha dato una regolamentazione sul fine vita. Se ne è data notizia anche nelle pagine di questo quotidiano (Vedi: Il biotestamento è legge).
Il testo magari non troverà tutti d'accordo ma sicuramente andrà a colmare un pericoloso vuoto legislativo.
Vorrei però fare alcune riflessioni "a caldo" sul dibattito che ha preceduto il voto. Soprattutto perché ritengo sia utile comprendere bene quali debbono essere le finalità del legislatore e quali gli interessi che deve tutelare.
Non c'è dubbio: la libertà è uno dei valori fondanti della nostra civiltà, un principio per cui abbiamo sostenuto molte battaglie e ancora siamo pronti a combattere. Perché allora il concetto di libertà è stato messo in discussione quando si è trattato di decidere sul fine vita? Cosa è successo alle tante dichiarazioni di principio?
"Morire non è nulla" ma "non vivere è spaventoso" scriveva Victor Hugo ne I miserabili. E chi mai oserebbe dargli torto? Ma siamo proprio sicuri che morire non sia nulla? Se per morte si intende il concludersi naturale del ciclo vitale cui nessuno può né opporsi né conoscere i tempi, Victor Hugo aveva colto nel segno.
Tuttavia dobbiamo chiederci: cosa accade quando l'atto di morire ci costringe ad attraversare una lunga e straziante agonia?
E' forse questo il nodo da cui ha preso piede la discussione sul testamento biologico e sui trattamenti di fine vita. Un dibattito in cui da un lato si è rivendicato il diritto a decidere liberamente sulle terapie da adottare, o da evitare, nel fine vita, dall'altro si è affermato che uno Stato non dovrebbe mai agevolare la scelta di chi voglia ricorre al suicidio.
È senz'altro difficile trovare una via d'uscita al problema se posto in questi termini. E forse nei dibattiti che hanno preceduto l'approvazione della legge sul testamento biologico sarebbe stato utile chiarire in primo luogo che esiste una differenza sostanziale tra l'eutanasia e l'aiuto a sospendere le cure.
Il caso Welby, da cui tutto ebbe inizio
Per inquadrare il tema è utile ricordare il caso di Piergiorgio Welby il quale, affetto da una gravissima forma di distrofia muscolare progressiva, nel 1997 venne collegato a un respiratore automatico, indispensabile ad assolvere le funzioni essenziali alla sua sopravvivenza biologica.
In seguito Welby, consapevole di ciò che avrebbe comportato l'evoluzione della sua patologia, chiese che si procedesse al distacco dell'apparecchio di ventilazione, sotto sedazione. Il medico che l'aveva in cura oppose un rifiuto poiché tale pratica sarebbe stata contraria, a suo dire, agli obblighi della sua professione. Il paziente si rivolse alla magistratura chiamando in causa l'articolo 32 della Costituzione italiana sul diritto di autodeterminazione dell'individuo pure riconosciuto dall'art. 13 della Carta Costituzionale. Inizialmente il ricorso fu respinto, tuttavia il giudice mise in luce la mancanza, all'interno del sistema giuridico italiano, di una normativa utile a regolamentare le decisioni di fine vita in un contesto clinico. La sentenza fu giudicata dal Tribunale civile di Roma "affetta da una palese contraddizione". Nel frattempo Welby, più che mai certo delle sue ragioni all'autodeterminazione, aveva trovato un medico disponibile a consentirgli di esercitare questo diritto. Il 20 dicembre 2006, dopo gli accertamenti dovuti, Welby fu staccato dalla macchina che lo teneva in vita. Qui si aprì il dibattito sul fine vita.Fino ad oggi il "vuoto legislativo" sul testamento biologico ha lasciato spazio a soluzioni interpretative che come tali non potevano non generare inaccettabili incertezze e diversità di trattamento.
In questo come in altri ambiti, il legislatore dovrebbe comprendere che il fine di qualsiasi disposizione normativa è inscindibilmente legato alla necessità di rendere possibile una civile convivenza. Il che significa, principalmente, stabilire le regole per una collettività di individui liberi. Attraverso le leggi, lo Stato da un lato deve rispettare la libertà del singolo, dall'altro deve evitare che tale libertà possa entrare in conflitto con la libertà degli altri.
E qui entra in gioco quella che mi piace definire come la "teoria della tutela degli interessi contrapposti". Sulla base di tale teoria il legislatore può vietare solo quei comportamenti che si pongono in contrasto con interessi di altri soggetti o con l'interesse dell'intera collettività. Al contrario, se una legge volesse imporre regole morali o scelte di carattere etico e religioso si andrebbe a commettere un inaccettabile e ingiustificato abuso.
I punti cardine del dibattito che ha preceduto il voto sul testamento biologico si sono sempre basati su due idee diametralmente contrapposte. Entrambe degne di rispetto:
- c'è chi ha difeso la libertà del paziente esigendo il rispetto delle sue volontà anche sulla base del consolidato principio del "consenso informato";
- c'è chi, pur riconoscendo la libertà del paziente, si è opposto al riconoscimento della possibilità che uno Stato possa aiutare un paziente a portare a termine la sua scelta di suicidarsi.
Vediamo alcuni dettagli di tale dibattito.
Il rispetto della volontà del paziente
Il principio del consenso informato non è certo una novità nel nostro ordinamento giuridico. In mancanza di un consenso validamente prestato il medico non può compiere alcun intervento sul malato. Si tratta di un principio di civiltà giuridica dal quale non si può e non si deve prescindere.
Quando una legge vuole porre un limite alla libertà dell'individuo, deve giustificare questo "sacrificio" con la necessità di salvaguardare degli interessi contrapposti che siano meritevoli di tutela, altrimenti qualsiasi disposizione normativa rischia di trasformarsi in un'intollerabile quanto inutile ingerenza nella sfera individuale dei cittadini.
La Costituzione è sempre stata di estrema chiarezza sul punto: in base all'art. 32 nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. Tale principio è stato recepito anche dal codice di deontologia medica (artt. 33 - 39) laddove si definisce l'importanza del consenso alle cure e la rilevanza delle dichiarazioni anticipate di trattamento (le cosiddette "living will").
E questi sono i principi a cui si è ispirato ora il legislatore per delineare alcune delle regole sul "testamento biologico" e sulla sua validità.
Lasciando da parte questa legge, non possiamo non evidenziare che un paziente ha sempre avuto il diritto di rifiutare ogni tipo di cura (e non soltanto quelle che costituiscono forme di accanimento terapeutico), compreso la semplice idratazione e alimentazione artificiale (lo stesso art. 53 del codice di deontologia medica intitolato "Rifiuto consapevole di alimentarsi" vieta al medico qualsiasi forma di costrizione e vieta altresì di collaborare "a procedure coattive di alimentazione o nutrizione artificiale").
Aiuto al suicidio o terapia?
È importante fare chiarezza su uno dei punti focali del dibattito che ha preceduto l'approvazione della legge.
- l'eutanasia vera e propria (c.d. eutanasia attiva) consiste in un intervento medico attivo, in una manovra diretta ad abbreviare l'agonia di un malato terminale provocandone la morte;
- la sospensione delle cure (che a volte viene denominata eutanasia passiva) è cosa ben diversa perché consiste nella interruzione di un trattamento medico necessario alla sopravvivenza. Non si può parlare in tal caso di suicidio perché il paziente chiede solo di non proseguire le cure nel rispetto della sua volontà ed in conformità con il principio del consenso informato.
Una volta riconosciuto il diritto a rifiutare le cure, non si può non riconoscere che il malato abbia comunque diritto a un'assistenza medica che possa alleviare anche le sofferenze legate alla interruzione del trattamento terapeutico.
Non voglio certo mettere in discussione il principio secondo cui il medico ha il dovere di 'salvare la vita'. Tale dovere però non può non trovare un temperamento nell'altrettanto fondamentale dovere che impone al medico di 'alleviare le sofferenze' del malato e che trova un esplicito riconoscimento nell'art. 39 del codice di deontologia medica.
La questioni etiche, morali e religiose
Pretendere che i trattamenti di fine vita siano regolamentati sulla base di principi religiosi o di regole morali, significa non aver chiaro neppure un concetto cardine della religione stessa. Se è vero che religione e moralità sono immancabili protagonisti del film della vita, entrambi però riconoscono la libertà come diritto fondamentale dell'individuo. Ed è per questo che si parla di "libero arbitrio" anche riguardo il rispetto delle scelte che un individuo compie in contrasto con le regole morali o religiose.
I trattamenti di fine vita rappresentano una scelta libera, di diritto, da parte di chi non sta certo chiedendo di essere ucciso, ma vuole vivere il tempo che gli rimane senza ricorrere a cure che andrebbero a prolungare inutilmente la sua agonia.
Con la legge sul testamento biologico è stato fatto, finalmente, un importante passo avanti nella tutela della libertà dell'individuo, del suo diritto di compiere liberamente scelte che riguardano la propria vita, specie quando tali scelte non interferiscono con le libertà altrui.
Qui di seguito una sintesi dei punti chiave della legge sul testamento biologico:
- diritto alle scelte terapeutiche e cure condivise da parte del paziente cosciente, subordinato al suo consenso informato e scritto, che può comunque revocare. Per le patologie croniche gravi e invalidanti o per malattie con prognosi infausta, medico e malato possono accordarsi rispetto al piano di cure da seguire qualora il paziente dovesse perdere la capacità di intendere e di volere;
- rifiuto della cura: il malato, una volta informato delle conseguenze delle proprie scelte ha il diritto di rifiutare qualunque cura, anche quelle indispensabili alla sua sopravvivenza. È bene sottolineare che la legge non introduce né l'eutanasia né il suicidio assistito;
- il malato può coinvolgere un familiare o un amico nelle sue scelte, ma in assenza di indicazioni precise il medico potrà rivolgersi solo al paziente;
- per i minorenni le decisioni sono demandate ai genitori o agli affidatari. Verrà tenuto conto dell'opinione dei minori con più di 12 anni. In caso di disaccordo tra i genitori, interverrà il Giudice;
- per coloro che sono incapaci di intendere e volere decide il tutore o, in alternativa e per casi particolari, il Giudice;
- le Dichiarazioni anticipate di trattamento, denominate DAT, rilasciate sempre in forma scritta da soggetti maggiorenni in grado di intendere e di volere, permettono a chiunque di stabilire in anticipo a quali terapie sia disposto a sottoporsi in caso di necessità, anche ricorrendo a un fiduciario che lo rappresenti nelle scelte di fronte ai medici, Costoro sono tenuti a rispettare le scelte espresse nel DAT, salvo situazioni particolari. In caso di disaccordo tra medico e fiduciario decide il Giudice.