di Valeria Zeppilli - Anche i messaggi e i filmati postati sui social network possono integrare l'elemento oggettivo del delitto di atti persecutori. In tal caso, come si legge nella sentenza numero 57764/2017 della Corte di cassazione (qui sotto allegata), l'attitudine dannosa della condotta non è tanto "quella di costringere la vittima a subire offese o minacce per via telematica, quanto quella di diffondere fra gli utenti della rete dati, veri o falsi, fortemente dannosi e fonte di inquietudine per la parte offesa".
Per comprendere meglio di cosa stiamo parlando, analizziamo il caso concreto.
La vicenda
La vicenda giudiziaria ha avuto origine dall'apertura, da parte dell'imputato, di un profilo Facebook dedicato a postare foto, video e commenti con riferimenti, impliciti o espliciti, a una donna, sua ex amante. Per l'uomo, in sostanza, si trattava di una vendetta rispetto alla scelta della vittima di rivelare la loro relazione clandestina alla moglie.
Una vendetta che, però, gli è costata una condanna penale per atti persecutori, confermata in via definitiva anche in sede di legittimità.
Per la Cassazione, infatti, non meritano accoglimento, tra le altre, le doglianze circa l'attitudine dannosa del comportamento contestato.
Attitudine dannosa
Infatti, nel caso di specie, a nulla rileva la circostanza che la donna poteva ignorare le foto, i video e i commenti semplicemente non accedendo al profilo Facebook, "in quanto l'attitudine dannosa è riconducibile alla pubblicizzazione di quei contenuti".
Posto peraltro che l'apertura della pagina sul social network rappresenta solo una delle modalità con le quali si è estrinsecata al condotta persecutoria dell'uomo e che nel corso del giudizio di merito sono stati provati sia lo stato d'ansia che il mutamento delle abitudini di vita della vittima, la condanna per stalking resta e si cristallizza.
Corte di cassazione testo sentenza numero 57764/2017• Foto: 123rf.com