di Paolo M. Storani - Come deve essere svolto ora, dopo le recenti modifiche, l'accertamento della pericolosità sociale dell'imputato? La spiegazione in una recente pronuncia emessa in data 27 settembre 2017 dal Dott. Domenico Potetti del Tribunale Penale di Macerata.
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TRIBUNALE DI MACERATA, Sezione GIP/GUP, 27 settembre 2017, Giudice Domenico Potetti, imp. X.
Pur restando immutata la definizione di cui all'art. 203 c.p., il giudizio di pericolosità sociale è stato configurato diversamente dal comma 4 dell'art. 3 ter del DL n. 211 del 2011 (conv. in l. n. 9 del 2013, poi modificato dalla l. n. 81 del 2014), sia pure ai soli fini dell'applicazione di una misura "diversa dal ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario o in una casa di cura e custodia", nel senso che l'accertamento della pericolosità sociale deve ora essere effettuato sulla base delle qualità soggettive della persona e senza tenere conto delle condizioni di cui all'art. 133, secondo comma, n. 4, c.p. (e cioè delle condizioni di vita individuale, familiare e sociale del reo), e che non costituisce elemento idoneo a supportare il giudizio di pericolosità sociale la sola mancanza di programmi terapeutici individuali. Ne consegue che, se l'imputato, esaminato di per se stesso, in modo puramente individuale (come vuole la riforma) risulta socialmente pericoloso, allora a nulla rileva l'eventuale proficuo contesto in cui eventualmente egli possa essere inserito, anche se quel contesto potrebbe arginare la sua pericolosità sociale, inducendolo (ad esempio) ad assumere i farmaci a ciò necessari.
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1) Il fatto in sintesi.
I fatti sono sostanzialmente pacifici (v. dichiarazioni di … la documentazione medica, le foto in atti).
Dunque, alle ore … preparava il pranzo per il proprio figlio …, e per il nipote ….
Alle ore 13.10 circa le persone di cui sopra si sedevano a tavola e iniziavano a consumare il pranzo.
Nel contempo … rientrava in abitazione dopo essere stato in garage.
Al suo rientro … stranamente udiva che la porta d'ingresso veniva chiusa dall'interno.
Il … entrava in cucina, tenendo le mani dietro la schiena, e così occultando un coltello.
La … chiedeva al marito cosa nascondesse a dietro la schiena, a quel punto …, udite tali parole, si scagliava con un coltello da cucina contro il figlio seduto a tavola, accoltellandolo all'emitorace sinistro basso (tirava tre colpi, dice la vittima, anche se non sa dire quanti siano andati a segno).
…, dopo essere stato colpito, si alzava e prima allontanava immediatamente …, e contestualmente, dopo aver afferrato una sedia, la scaraventava verso …, il quale cadeva all'indietro battendo la testa sul pavimento e ferendosi.
A quel punto …, mantenendo tra le mani ancora il coltello, cercava di rialzarsi per colpire nuovamente …, ma quest'ultimo colpiva con un calcio … sulla mano, allontanando il coltello.
…, seppure ferito, …, cercando di uscire per mettersi in salvo e per richiedere l'aiuto dei vicini, ma non vi riusciva, perché … aveva chiuso a chiave la porta.
Vedendo ciò la madre prendeva la chiave nascosta in cucina, riuscendo ad aprire il portone e a chiedere aiuto.
… nel frattempo si rialzava e si sedeva sul divano.
A seguito del ricovero ospedaliero presso il nosocomio di …, il personale medico del pronto soccorso riscontrava sul … una "ferita da arma bianca della base dell'emitorace sinistro" con prognosi di giorni 30 s.c.
Lo stesso veniva posto in osservazione presso il reparto di chirurgia del predetto nosocomio.
… veniva posto in osservazione per trauma cranico non commotivo e ferita lacero contusa in sede parietale, con vistoso sanguinamento.
Il dott. .. chirurgo, riferiva che la ferita riscontrata sulla vittima era stata provocata da due colpi che provocavano una lesione profonda circa quattro centimetri e lunga circa quindici centimetri. °°°
2) La questione di responsabilità.
Alla luce di quanto sopra sinteticamente esposto appare evidente la responsabilità penale dell'imputato (a parte l'imputabilità) in ordine all'imputazione a lui ascritta.
Infatti la ricostruzione storica dei fatti può contare su fonti dichiarative insospettabili, visto che non si rinviene alcun elemento che autorizzi a ipotizzare la natura calunniosa di tali dichiarazioni.
Ma soprattutto, ovviamente, la condotta criminosa è confermata dalle conseguenze fisiche subite dalla vittima, a loro volta riscontrate dalla documentazione medica in atti, oltre che dalle suddette dichiarazioni del chirurgo.
Non si ravvisano nemmeno dubbi in ordine all'idoneità della condotta criminosa a cagionare la morte della vittima.
A tal fine va posto l'accento sull'idoneità dell'arma (coltello) rispetto all'evento omicidiario.
Si tratta infatti di un coltello da cucina con manico in gomma di cm 14, avente una lama lunga cm 16,5.
L'arma era quindi idonea ad attingere organi vitali della vittima.
Anche la parte del corpo attinta (emitorace sinistro) conferma l'idoneità della condotta a provocare la morte della vittima.
Nemmeno possono esservi ragionevoli dubbi sulla direzione non equivoca degli atti posti in essere dall'imputato (art. 56 del codice penale), essendosi manifestata chiaramente la volontà da parte dell'imputato di colpire mortalmente la vittima, tanto che l'imputato medesimo, pur avendo incontrato la violenta resistenza della vittima stessa, tentò comunque di colpirla nuovamente, e solo la resistenza del … poté scongiurare l'esito tragico (mortale) della condotta. °°°
3) Partecipazione consapevole al processo, imputabilità, pericolosità sociale.
3.1 Il consulente del PM ha accertato che l'imputato è affetto da schizofrenia residua, con deterioramento cognitivo e vasculopatia cerebrale cronica, in terapia con protocollo psicofarmacologico.
Ad avviso del consulente le attuali condizioni psicopatologiche permettono all'imputato di partecipare coscientemente al processo.
Ancora il consulente ha accertato che le condizioni neuro - psicopatologiche dell'imputato al momento del fatto erano quelle di psicotizzazione acuta schizofrenica paranoidea, sostenuta ed indotta da farmaci psicostimolanti, che hanno creato un potente effetto di trascinamento, in soggetto con atrofia cerebrale, deterioramento psichico e discinesie tardive iatrogene.
Le condizioni psicopatologiche dell'imputato al momento del fatto erano quindi tali da scemare grandemente la capacità di comprendere e da elidere totalmente la capacità di volere.
Quanto alla pericolosità sociale dell'imputato, in sintesi il consulente indica la persistenza di una residua quota di pericolosità sociale di tipo psichiatrico, connaturata all'incompleto assestamento cerebro-organico e psicopatologico della persona, ma con una prevalenza dei fattori di protezione sui fattori di rischio.
Ad avviso del perito, tale quota residua di pericolosità può essere controllata e stabilizzata con la prosecuzione vigile e direttiva dei trattamenti psico farmacologici e riabilitativi sulla persona e sulla sua relazionalità, presso una struttura riabilitativa che disponga di adeguati livelli di vigilanza ed assistenza sull'assunzione farmacologica, l'igiene di vita e mentale e la risocializzazione.
Conclude quindi il consulente nel senso che l'imputato mantiene, nell'attualità, elementi nucleari in remissione ma attivi e non ancora stabilizzati, degli stessi fattori schizoparanoidi responsabili dell'emergenza critica psicotica acuta, le cui condotte-sintomo si sono costituite nei fatti - reato per cui è processo.
Questa residua quota di pericolosità sociale di tipo psichiatrico può essere neutralizzata e controllata con la permanenza in trattamento presso una struttura sanitaria o residenziale che offra livelli assistenziali e riabilitativi di minima risocializzazione, con adeguata vigilanza diretta sull'assunzione delle terapie psicofarmacologiche prescritte. °°°
3.2 Da quanto precede si evince quindi la sussistenza (ai fini dell'applicazione della misura di sicurezza) della pericolosità sociale dell'imputato.
Prima della l. n. 81-14 si riteneva in effetti che ai fini del giudizio di pericolosità sociale, quando si fosse trattato di infermi o seminfermi di mente, il riferimento, contenuto nel co. 2 dell'art. 203 c.p., alle "circostanze indicate nell'art. 133" non escludesse affatto, ma anzi presupponesse che dette circostanze venissero valutate tenendo conto della situazione obiettiva in cui il soggetto, dopo la commissione del reato e l'eventuale espiazione della pena, si fosse trovato a vivere e ad operare e, quindi, anche della presenza ed affidabilità o meno di presidi territoriali socio-sanitari, in funzione delle obiettive e ineludibili esigenze di prevenzione e di difesa sociale alla cui salvaguardia sono finalizzate (in difetto di altri strumenti d'intervento e di controllo che assicurino pari o superiore efficacia) le misure di sicurezza previste dalla legge (v. Cass., Sez. I, n. 507-93-94).
Ma dopo la l. n. 81-14 (pur restando immutata la definizione ex art. 203 c.p.) il giudizio di pericolosità sociale è stato configurato diversamente dal comma 4 dell'art. 3 ter del DL n. 211-11 (conv. l. n. 9-13, poi modificato dalla l. n. 81-14), sia pure ai soli fini indicati dalla norma (cioè ai soli fini dell'applicazione di una misura "diversa dal ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario o in una casa di cura e custodia": v. infatti C. cost. n. 186-15).
Esso prevede (fra l'altro) che l'accertamento della pericolosità sociale è effettuato sulla base delle qualità soggettive della persona e senza tenere conto delle condizioni di cui all'art. 133, secondo comma, n. 4, c.p. (e cioè delle condizioni di vita individuale, familiare e sociale del reo), e che non costituisce elemento idoneo a supportare il giudizio di pericolosità sociale la sola mancanza di programmi terapeutici individuali.
Questa norma ha superato indenne lo scrutinio di costituzionalità (v. C. cost. n. 186-15).
Infatti, il Giudice delle leggi ha "assolto" il comma 4 dell'art. 3 ter del d.l. n. 211-11, ritenendo che la modifica introdotta dalla novella (dell'art. 1, comma 1, lett. b), del DL n. 52-14) non riguarda la pericolosità sociale come categoria generale, ma si riferisce più specificamente alla pericolosità che legittima il ricovero in un ospedale psichiatrico o in una casa di cura.
La disposizione, osservano i giudici della Consulta, esordisce affermando che "il giudice dispone nei confronti dell'infermo di mente e del seminfermo di mente l'applicazione di una misura di sicurezza", ed è chiaro che nel fare ciò il giudice deve valutare la pericolosità sociale nei modi generalmente previsti.
È solo, si dice, per disporre il ricovero di una persona in un ospedale psichiatrico giudiziario o in una casa di cura o di custodia che il giudice deve accertare, senza tenere conto delle condizioni di cui all'art. 133, secondo comma, n. 4, del c.p., che ogni misura diversa non è idonea ad assicurare cure adeguate e a fare fronte alla sua pericolosità sociale.
La limitazione quindi non riguarda in generale la pericolosità sociale, ma ha lo scopo di riservare le misure estreme, fortemente incidenti sulla libertà personale, ai soli casi in cui sono le condizioni mentali della persona a renderle necessarie.
Resta però (osserva questo giudicante) che la riforma si esprime (sia pure nei limiti suddetti) a favore di una pericolosità sociale decontestualizzata, mediante un'astrazione del giudizio rispetto ai fattori esterni alla persona, che non possono essere presi in considerazione.
Com'è stato correttamente osservato in dottrina, la riforma ci consegna un'immagine dell'autore del reato come un soggetto da laboratorio, sottratto all'influenza dei fattori esterni e sembra guardare con favore il ritorno ad una nozione biologica di pericolosità sociale. °°°
3.3 Comunque, alla luce di tali considerazioni, l'imputato qui giudicato va considerato socialmente pericoloso, proprio sulla base di quella concezione puramente soggettiva (astratta) che la riforma di cui sopra ha voluto consacrare.
Secondo il responso del perito, infatti, è chiaro che l'imputato, esaminato di per se stesso, in modo puramente individuale (come vuole la riforma) è socialmente pericoloso.
Come si è visto, a nulla rileva l'eventuale proficuo contesto in cui eventualmente l'imputato possa essere inserito; contesto che potrebbe arginare la sua pericolosità sociale, inducendolo (in ipotesi) ad assumere i farmaci a ciò necessari.
Si tiene altresì, nei sensi di cui al comma 4 dell'art. 3 ter del DL n. 211-11, che ogni misura diversa dal ricovero in apposita struttura protetta non sarebbe idonea ad assicurare all'imputato cure adeguate e a fare fronte alla sua pericolosità sociale, perché solo una siffatta struttura può garantire le cure necessarie ad arginare quella pericolosità, mediante una continua e adeguata assistenza.
Del resto lo stesso consulente ha stabilito la necessità di una prosecuzione vigile e direttiva dei trattamenti psicofarmacologici e riabilitativi, presso una struttura riabilitativa che disponga di adeguati livelli di vigilanza ed assistenza sull'assunzione farmacologica, l'igiene di vita e mentale e la risocializzazione
Va quindi applicata al medesimo la misura di sicurezza di cui il dispositivo. °°°
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