di Lucia Izzo - Non può scattare la condanna per diffamazione se non è accertato l'indirizzo IP da cui proviene il messaggio che offende la reputazione. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, V sezione penale, nella sentenza n. 5352/2018 (qui sotto allegata) accogliendo il ricorso di una donna, condannata per il reato di cui all'art. 595, comma 3, del codice penale.
L'imputata, era ritenuta colpevole di aver offeso la reputazione di un Sindaco, diffondendo un messaggio diffamatorio attraverso il social network Facebook. In Cassazione, tuttavia, la signora sostiene che la motivazione del giudice a quo sia illogica e abbia violato i criteri legali di valutazione della prova.
In particolare, la signora contesta la Corte territoriale nella parte in cui ha ritenuto a lei riferibile il messaggio in quanto proveniente da un profilo riportante suo nome e cognome (quindi ritenuto lei appartenente) e in base all'argomento di discussione del forum su cui era stato postato, riguardante pretese dei lavoratori del Comune, ritenute di interesse della donna che, all'epoca dei fatti, svolgeva attività di sindacalista.
In realtà, l'imputata ritiene che gli indizi non convergano in quanto, non solo, non è stato identificato l'indirizzo IP di provenienza del post, ma la stessa non conosceva la persona del sindaco e mai aveva avuto contatti con il predetto; ancora, la signora evidenzia il diverso ambito di interesse dell'attività sindacale da lei svolta (nel settore dei lavoratori chimici, elettronici e tessili) rispetto ai lavoratori di cui al forum, appartenenti alla categoria dei lavoratori cd. socialmente utili del comune.
In particolare, la ricorrente sottolinea il dato, già rilevato con i motivi d'appello, dell'omessa verifica da parte dell'accusa dell'indirizzo IP di provenienza (codice numerico assegnato in via esclusiva ad ogni dispositivo elettronico, all'atto della connessione da una data postazione dal servizio telefonico, onde individuare il titolare della linea) della frase diffamatoria, così come la mancanza di una prova fornita attraverso i cd. file di log, contenenti tempi e orari della connessione. Infine, rappresenta la difesa, nelle indagini svolte in origine dalla parte civile, l'indirizzo IP individuato, era risultato intestato al profilo Facebook di un altro sindacalista, sul quale scrivevano numerosi utenti.
Diffamazione: va accertato l'IP di provenienza del messaggio diffamatorio
Per la Cassazione il ricorso è fondato: la motivazione della sentenza di appello, infatti, non si confronta con le specifiche lagnanze mosse dalla difesa, relative all'indicata intestazione dell'IP individuato in origine dalla parte civile, riferibile al profilo Facebook registrato a nome dell'altro sindacalista, forum sulla cui bacheca virtuale, secondo la ricorrente, intervenivano numerosi utenti che ben avrebbero potuto utilizzare il suo nickname.
Ancora, la Corte territoriale ha omesso di confrontarsi con l'argomento difensivo secondo il quale, a prescindere dal nickname utilizzato, l'accertamento dell'IP di provenienza del post può essere utile per verificare, quanto meno, il titolare della linea telefonica associata.
Neppure il provvedimento impugnato risponde sulla dedotta carenza istruttoria circa la verifica tecnica di tempi e orari della connessione, in quanto l'imputata ha contestato la paternità del post in ogni grado del giudizio di merito, e sulla rilevata diversità tra i settori operativi della donna rispetto a quelli della categoria dei lavoratori cd. socialmente utili ai quali ineriva la discussione del forum.
La sentenza impugnata va dunque annullata con rinvio, stante l'insufficiente motivazione circa il prospettato dubbio relativo all'eventualità che terzi abbiano potuto utilizzare il nickname dell'imputata per inviare il messaggio sul forum di discussione e il mancato rispetto del criterio legale di valutazione ex art. 192, comma 2, c.p.p. quanto alla convergenza, concordanza e precisione degli indizi posti a base della ritenuta responsabilità.
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