di Redazione - Incostituzionale l'art. 656, quinto comma, del codice di procedura penale che prevede solo la sospensione per pene fino a 3 anni. È quanto stabilito oggi dalla Consulta, con la sentenza n. 41/2018 (relatore Giorgio Lattanzi), come reso noto dal comunicato diffuso dall'ufficio stampa di piazza del Quirinale. Chi deve scontare una pena, anche residua, fino a 4 anni di carcere "ha diritto alla sospensione dell'ordine di esecuzione allo scopo di chiedere e ottenere l'affidamento in prova ai servizi sociali, nella versione 'allargata' introdotta dal legislatore nel 2013" scrive il giudice delle leggi.
Art. 656 c.p.p., incostituzionale il quinto comma
Da qui, l'incostituzionalità del quinto comma dell'art. 656 c.p.p. "nella parte in cui si prevede che il pubblico ministero sospende l'esecuzione della pena detentiva, anche se costituente residuo di maggiore pena, non superiore a tre anni anziché a quattro anni".
In tal modo, la Corte, scongiura l'effetto "porte girevoli" della norma impugnata, che comportava l'ingresso in carcere per un periodo di alcuni mesi del condannato che avesse titolo per scontare la pena in altra forma.
La sentenza rileva che il legislatore ha creato un "tendenziale parallelismo" tra la sospensione della pena e la possibilità di fruire dell'affidamento in prova, per cui, ragionano dalla Consulta, il "filo che le lega non può essere spezzato senza una ragionevole giustificazione, considerata la 'natura servente' della prima rispetto alla misura alternativa". Ciononostante, all'introduzione dell'affidamento in prova per pene da scontare fino a 4 anni non è seguita, contestualmente, anche una modifica dell'articolo 656 sulla sospensione. Modifica che era peraltro prevista dalla delega sulla riforma dell'ordinamento penitenziario, tuttavia, ancora non esercitata.
Si è di fronte quindi, ad una "incongruità legislativa che si discosta dal 'parallelismo' tra le due misure senza una ragionevole giustificazione".
Carceri: con l'affidamento allargato pena sospesa fino a 4 anni
È ovvio che spetta alla discrezionalità del legislatore stabilire le deroghe a questo parallelismo, in presenza di situazioni particolari che impongono un passaggio in carcere in attesa della decisione sulla richiesta di affidamento. In tali ipotesi, si legge nella nota, "le ragioni ostative prevalgono sulla coerenza sistematica e si sottraggono a censure di incostituzionalità". In via generale, invece, ossia per i reati che non rientrano nelle deroghe previste, "il mancato adeguamento della disposizione censurata appare di particolare gravità perché è proprio il modo in cui la legge ha configurato l'affidamento in prova allargato che reclama, quale corollario, la corrispondente sospensione dell'ordine di esecuzione".
Lesione dell'art. 3 della Costituzione
I giudici costituzionali informano di non aver condiviso le tesi dell'Avvocatura secondo cui l'affidamento allargato sarebbe stato introdotto soltanto per i detenuti, allo scopo di svuotare le carceri. Il legislatore, ha obiettato la Consulta, "ha esplicitamente optato per l'equiparazione tra detenuti e liberi, ai fini dell'accesso alla misura alternativa", notando che "si è trattato di una scelta del tutto coerente con lo scopo di deflazionare le carceri, visto che esso si persegue non solo liberando chi le occupa ma anche evitando che vi faccia ingresso chi è libero".
E però, la scelta di consentire l'affidamento in prova anche ai condannati con pene tra tre anni e un giorno e quattro anni che si trovano in stato di libertà "rimarrebbe senza senso se non venisse anche sospeso l'ordine di esecuzione, perché di fatto la misura non potrebbe che essere applicata dopo l'ingresso in carcere".
Pertanto, omettendo di adeguare la norma "ancillare", conclude la Consulta, "il legislatore smentisce se stesso, insinuando nell'ordinamento una incongruità sistematica capace di ridurre gran parte dello spazio applicativo riservato alla normativa principale". Non si verte, in definitiva, in un mero difetto di coordinamento, bensì della lesione dell'art. 3 della Costituzione, in quanto si è derogato "al principio del parallelismo senza adeguata ragione giustificatrice, dando luogo a un trattamento normativo differenziato di situazioni da reputarsi eguali quanto alla finalità intrinseca alla sospensione dell'ordine di esecuzione della pena detentiva e alle garanzie apprestate in ordine alle modalità di incisione della libertà personale del condannato".
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