di Riccardo Testiera - L'era dei Social Network ha determinato l'insorgere di problematiche legate alla nostra quotidianità e, inevitabilmente, connesse alla condotta adottata in un contesto, quale quello delle bacheche digitali, nel quale l'espressione delle proprie opinioni e dei propri convincimenti sembrerebbe sfuggire alla logica delle responsabilità personali, inducendo numerosi internauti a ritenere la rete una zona franca, nella quale poter agire impunemente.
Il reato di diffamazione
Prima di addivenire alla disamina dell'argomento di cui ci occuperemo quest'oggi, occorre preliminarmente compiere una breve introduzione in merito agli elementi costitutivi del reato previsto e punito dall'art. 595 del codice penale e rubricato "Diffamazione".
Ebbene, partendo dal dato meramente testuale, il codice penale definisce "diffamazione" il comportamento di chi "comunicando con più persone, offende l'altrui reputazione". Tale condotta è punita con la reclusione fino ad un anno e con la multa fino a 1.032 euro.
Qualora l'offesa consista nell'attribuzione di un fatto determinato, il codice prevede una pena alla reclusione fino a due anni, ovvero della multa fino a 2.065 euro.
Infine, se l'offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiori a 516 euro.
La ratio del reato di diffamazione
La ratio di tale reato trova il proprio fondamento nella necessità di garantire la cosiddetta reputazione dell'individuo, ovvero l'onore inteso in senso soggettivo quale considerazione che il mondo esterno ha del soggetto stesso.
Inoltre, a differenza del reato di ingiuria ex art. 594 (abrogato dal D.lgs. 15 gennaio 2016, n. 7) , la diffamazione integra la condotta di chi rivolge l'offesa verso persone non presenti, ovvero non solo assenti fisicamente, ma anche non in grado di percepirla.
Ebbene, giungendo alla trattazione dell'argomento oggetto dell'odierna disamina, possiamo affermare - senza tema di smentita - che i social network rappresentano delle vere e proprie agorà virtuali, all'interno delle quali diventa sempre più frenetico lo scambio di informazioni e di opinioni e sempre più endemica la condivisione della propria quotidianità.
Questo incontrollato scambio di contenuti pubblici, attraverso il mezzo telematico, può determinare delle potenziali violazioni degli interessi di terzi, i quali - anche inconsapevolmente - possono incorrere in una lesione del proprio onore, della propria reputazione, nonché della propria immagine.
L'intervento della Suprema Corte
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 50/2017, ha inteso ribadire un principio già espresso in occasione di un precedente arresto giurisprudenziale (sent. n. 24431/2015) secondo il quale "la diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l'uso di una bacheca 'facebook' integra un'ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell'art. 595 terzo comma cod. pen., poiche' trattasi di condotta potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato o comunque quantitativamente apprezzabile di persone".
La Suprema Corte chiarisce, altresì, che "l'aggravante dell'uso di un mezzo di pubblicità, nel reato di diffamazione, trova, infatti, la sua ratio nell'idoneità del mezzo utilizzato a coinvolgere e raggiungere una vasta platea di soggetti, ampliando ' e aggravando ' in tal modo la capacita' diffusiva del messaggio lesivo della reputazione della persona offesa".
Concludendo, rischia fino a tre anni di reclusione colui il quale veicola un messaggio dal contenuto diffamatorio pubblicando un post sulla propria bacheca o un commento su quella altrui.
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