di Marina Crisafi - Tenere animali in catene è reato perché si tratta di una situazione incompatibile con la loro natura e produttiva di gravi sofferenze.
È quanto sancito dalla terza sezione penale della Cassazione, con la recente sentenza n. 10164/2018 (sotto allegata), che ha confermato definitivamente la condanna nei confronti del gestore di un circo responsabile di aver detenuto cinque elefanti con catene che ne limitavano anche i più elementari movimenti.
La vicenda
Nella vicenda, il tribunale di Alessandria condannava l'uomo alla pena dell'ammenda per il reato di cui all'art. 727 secondo comma c.p., per avere nella sua qualità di gestore del circo, "detenuto cinque elefanti in condizioni incompatibili con le loro caratteristiche etologiche, in quanto legati con corte catene limitative dei più elementari movimenti, in una situazione incompatibile con la loro natura e produttiva di gravi sofferenze". Con la stessa sentenza l'imputato veniva anche condannato a risarcire il danno alle parti civili costituite, la Lav e l'Anpana.
L'uomo adiva il Palazzaccio, lamentando, tra l'altro, il ragionamento scorretto del giudice di merito sulla valutazione delle prove, basate su dichiarazioni contrastanti con la ricostruzione effettuate dalle guardie zoofile e, senza considerare, le dichiarazioni dei dipendenti del circo che avevano dichiarato che gli animali erano legati esclusivamente per le ordinarie operazioni di polizia mentre per il resto restavano liberi.
Per gli Ermellini, però, il ricorso è inammissibile in quanto basato su censure di diritto manifestamente infondate e su una ricostruzione meramente alternativa dei fatti, ampiamente smentita dalla motivazione della sentenza impugnata e al compendio istruttorio.
Reato tenere animali incatenati
L'art. 727, 2° comma, c.p., premettono i giudici di piazza Cavour, "punisce la condotta di chi detiene animali in condizioni incompatibili con la loro natura e produttive di gravi sofferenze, avuto riguardo, per le specie più note (quali, ad esempio, gli animali domestici), al patrimonio di comune esperienza e conoscenza e, per le altre, alle acquisizioni delle scienze naturali". La disposizione, ribadiscono, "non si riferisce a situazioni contingenti che provochino un temporaneo disagio dell'animale, in considerazione della sua formulazione letterale, che fa riferimento al duplice requisito delle condizioni di detenzione dell'animale e della produzione di gravi sofferenze". Nel caso di specie, invece, il tribunale ha evidenziato chiaramente che la situazione nella quale gli elefanti erano stati trovati non era passeggera e contingente, né dettata dalla necessità di operare per la pulizia e la cura degli animali, perché gli animali erano legati con catene corte che ne impedivano i movimenti ed erano stati trovati in tale situazione all'interno del tendone dove venivano ricoverati per la notte, senza che vi fossero operazioni di pulizia in programma o in corso". Del tutto correttamente, inoltre, il giudice di merito ha svalutato la valenza delle dichiarazioni rese dai dipendenti del circo, in quanto ricche di imprecisioni e smentite sia dagli altri testi che dalla documentazione fotografica in atti.
Quanto alla riconducibilità della condotta dell'imputato all'ambito di applicazione del reato de quo, affermano ancora dalla S.C., "deve rilevarsi che la detenzione degli elefanti in catene, al di fuori dei momenti in cui il contenimento è strettamente necessario per esigenze di cura o pulizia, appare assolutamente incompatibile con la natura degli animali, perché realizza una compressione intollerabile della possibilità che l'elefante ha di muoversi, sia pure nello spazio limitato di un recinto". Si tratta di una condizione anche "produttiva di gravi sofferenze, perché consente al più movimenti minimi, inibendo del tutto la deambulazione e l'assunzione della posizione sdraiata di fianco". L'uso delle catene, come correttamente affermato dal tribunale, secondo il parametro delle linee guide per il mantenimento degli animali nei circhi e nelle mostre itineranti, è consentito soltanto "in via eccezionale, nei soli casi in cui occorra provvedere ad esigenze di cura sanitaria e di benessere dell'animale, oltre che di sicurezza degli operatori e, comunque, per il solo periodo nel quale a tali incombenze si debba procedere".
Nella vicenda, invece, conclude la Corte, le violazioni poste in essere risultano "talmente macroscopiche" da rendere superfluo anche il riferimento alla normativa "tecnica, essendo del tutto evidente l'assoluta incompatibilità con la natura dell'animale dell'uso di catene applicate contemporaneamente sia a una zampa posteriore che una zampa inferiore, trattandosi di uno strumento di contenimento di per sé produttivo di gravi sofferenze".
Per cui, il ricorso è dichiarato inammissibile e ciò preclude la possibilità di rilevare l'estinzione del reato per prescrizione. L'uomo perciò non si salva dalla condanna e alla stessa segue anche il versamento di 2mila euro in favore della Cassa delle ammende e il risarcimento alle parti civili.
Cassazione, sentenza n. 10164/2018
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