di Lucia Izzo - Un "cinguettio" su Twitter può costare caro al lavoratore che lede gravemente l'immagine della società stante i contenuti offensivi e denigratori e delle espressioni usate nel tweet.
Il Tribunale di Busto Arsizio, sezione lavoro, nella sentenza n. 62/2018 ha confermato il licenziamento irrogato dall'azienda al pilota che aveva pubblicato sul suo profilo Twitter dei messaggi dai contenuti offensivi e denigratori nei confronti della società datrice di lavoro.
I tweet erano stato provati documentalmente e l'opponente, che si era limitato a contestarne genericamente la paternità, avrebbe dovuto fornire la prova di non aver scritto i messaggi incriminati, ad esempio a causa di un'abusiva intromissione sul proprio profilo o quant'altro. Prova non fornita nel caso in esame.
Licenziamento legittimo se il tweet lede gravemente la reputazione
Certo, spiega il Tribunale, è un diritto costituzionalmente garantito quello di esprimere il proprio dissenso rispetto a opinioni e scelte altrui, ma i toni devono essere quelli di una comunicazione non offensiva né ingiuriosa se s'intende restare nel'alveo di un dialogo legittimo, oltre che civile e costruttivo.
I messaggi del lavoratore, invece, hanno trasceso la mera e legittima critica, rendendo esplicito un atteggiamento di disprezzo verso l'azienda e nei confronti dei suoi amministratori, rappresentati e potenziali partner commerciali. Inoltre, l'esternazione è stata fatta tramite un mezzo potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato o comunque quantitativamente apprezzabile di persone.
Tuttavia, conclude il giudice, essendo i comportamenti gravi, ma non di gravità tale da giustificare un licenziamento in tronco (quale quello che era stato comminato al lavoratore), l'impugnato provvedimento va convertito in licenziamento per giustificato motivo soggettivo e la società condannata a versare all'ex dipendente l'indennità sostituiva del preavviso.
Quando un post o un tweet mette a rischio il posto di lavoro?
Non è la prima volta che la giurisprudenza si dimostra sensibile al tema del licenziamento provocato da post o tweet dei dipendenti: anzi, nelle aule dei Tribunali è argomento diffuso quello dell'utilizzo dei social da parte di dipendenti che a essi affidano parole non sempre lusinghiere nei confronti dei propri datori di lavoro, rischiando di travalicare il diritto di critica e di incorrere in provvedimenti disciplinari.
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Allo stesso modo del Tribunale di Busto Arsizio, per il quali i brevi tweet sono risultati offensivi e lesivi dell'immagine del datore di lavoro e idonei a incrinare il rapporto fiduciario del lavoratore con l'azienda, anche il Tribunale di Milano ha ritenuto legittimo il licenziamento intimato al lavoratore.
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Per il giudice meneghino pregiudicava la società e la sua immagine la foto del dipendente, pubblicata sul proprio profilo Facebook, in giorno e orario lavorativo (durante a una pausa), ritratto insieme a due colleghi e accompagnata da una didascalia offensiva ("ditta di m…").
Il Tribunale di Bergamo, invece, ha "salvato" il dipendente dal licenziamento comminatogli dal datore a seguito della pubblicazione su Facebook di una fotografia che lo ritraeva mentre impugnava un'arma insieme al fratello. Pur trattandosi di un gesto controverso, secondo i giudici non sarebbe stato tale da applicare la massima tra le sanzioni disciplinari.
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Ancora, la Cassazione (sent. n. 2499/2017) ha ritenuto che la diffusione di una vignetta satirica su una chat creata da un gruppo di dipendenti dell'azienda, che contestava la lesione dell'immagine aziendale, non potesse legittimare il comminato licenziamento, sia per la "limitata diffusione della vignetta (tra i dieci partecipanti alla chat)", sia per "l'assenza di prova di una sua divulgazione all'esterno dell'ambiente di lavoro".
Per adeguarsi a un quadro ancora poco chiaro ed eclettico, i contratti collettivi e quelli di politica aziendale si stanno sempre più adeguando attraverso la previsione di sanzioni disciplinari in caso di violazioni dei dipendenti commesse a mezzo social.
Nel caso esaminato dal Tribunale di Busto Arsizio, infatti, il giudice ha espressamente fatto riferimento al CCL, regolante il trasporto aereo, il quale stabilisce che incorre nel licenziamento con preavviso il dipendente che lede gravemente l'immagine della compagnia utilizzando in maniera impropria i social network e i media in maniera inappropriata.
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