Ecco il testo della sentenza
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
SENTENZA 3 luglio 2001 n.9009
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con ricorso del 18 ottobre 1994, L. D. ha convenuto in giudizio dinanzi il Pretore di Foggia, in funzione di giudice del lavoro, l'Azienda (omissis) -, chiedendone la condanna al pagamento delle somme richieste per avere prestato attività lavorativa anche nelle giornate destinate al riposo settimanale, fatto dal quale gli era derivato un danno da usura. Costituitasi in giudizio, l'Azienda contestava la fondatezza della domanda, deducendo che il C.C.N.L. (art. 16 e 17) prevedeva già un congruo ristoro per il lavoro svolto durante il giorno destinato al riposo settimanale e che, in ogni caso, il trattamento riservato ai dipendenti per il mancato godimento di detto riposo era più favorevole anche rispetto a quello previsto dalla contrattazione collettiva nazionale; eccepiva altresì, in subordine, la prescrizione quinquennale.
Il Pretore ha accolto integralmente la domanda.
Il Tribunale di Foggia, in parziale accoglimento dell'appello dell'azienda, ha condannato quest'ultima a corrispondere al lavoratore, a titolo di risarcimento dei danni, il 30% delle somme determinate dal Pretore con riferimento - alla retribuzione di una giornata di lavoro. Nel giudizio di appello aveva spiegato intervento volontario la Regione Puglia, nell'assunto di essere succeduta all'(omissis) nel diritto controverso, ma il Tribunale ne ha disposto l'estromissione in quanto soggetto privo di legittimazione a contraddire.
Le argomentazioni che sorreggono la statuizione del Tribunale sono, in sintesi, le seguenti:
a) il danno da mancato godimento del riposo settimanale consiste nella lesione del diritto alla salute, lesione che non incide soltanto sul reddito, ma comprende anche il cd. danno biologico, con la conseguenza che nessuna prova deve essere fornita e in ordine al pregiudizio - di natura non patrimoniale - subito;
b) ne segue che, nel caso di prestazione di attività lavorativa in giornate destinate al riposo, senza fruizione del medesimo in altro giorno della settimana, il lavoratore ha diritto - oltre che alla retribuzione ed eventualmente alla maggiorazione - al risarcimento del danno (contrattuale), per la mancata fruizione del riposo settimanale, previsto, a tutela del prestatore, dagli artt. 36 Cost. e 2109 c.c.
c) il diritto al risarcimento non può essere escluso o ridotto per il fatto che il lavoratore abbia aderito spontaneamente alla proposta di lavorare nei giorni destinati al riposo (a causa dell'irrinunciabilità che caratterizza un diritto di natura fondamentale), mentre, ai fini della liquidazione, deve essere considerata la gravosità delle prestazioni rese, potendosi utilizzare gli strumenti ed istituti affini previsti dalla contrattazione collettiva e ritenere integralmente risarcito il danno ove il contratto collettivo preveda un'indennità per il mancato riposo in misura tale da costituire idonea riparazione;
c) nella specie, l'art. 17 del contratto collettivo del settore nulla disponeva in i ordine al risarcimento del danno derivato dal lavoro espletato nei giorni di riposo, non più goduto, avendo previsto soltanto una percentuale di maggiorazione sulla i paga ordinaria per il lavoro festivo e notturno, mentre l'art. 16 del medesimo contratto, nel determinare la retribuzione prevista per il lavoro prestato nei giorni festivi, ove essi coincidessero con il giorno di riposo (domenicale o periodico), contemplava solo la possibilità di godimento di una giornata in più di ferie, ovvero, se ciò non fosse stato possibile, il diritto ad una giornata di retribuzione i normale;
d) non prevedendo, dunque, la normativa contrattuale collettiva alcuna indennità particolare risarcitoria per l'usura psicofisica derivante dal mancato godimento del riposo, senza il relativo recupero, il danno doveva essere equitativamente liquidato nella misura del 30% della retribuzione dovuta per il lavoro normale, e ciò in considerazione della gravosità di tipo medio delle prestazioni lavorative, secondo turni ragionevolmente programmati, e dell'adesione spontanea del lavoratore, elementi che consentivano di valutare in misura modesta l'usura sofferta.
e) non sussisteva legittimazione passiva in capo alla Regione Puglia perché, ai sensi dell'art. 3 della legge regionale n. 37 del 1995, la gestione stralcio dell'ente regione era investita del compito di definire le sole partite debitorie maturate dopo il 31 dicembre 1993 e, nella specie, il credito azionato era insorto in epoca anteriore, a nulla rilevando la data dell'accertamento giudiziale.
Per la cassazione della sentenza ricorre l'(omissis) per sei motivi, anche nei confronti della Regione Puglia. Resiste il lavoratore con controricorso notificato soltanto alla parte ricorrente. Non si è costituita la Regione Puglia.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Il primo motivo di ricorso denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 1362 c.c. e dell'art. 3 della legge regionale Puglia n. 37 del 1995, per avere il Tribunale erroneamente disposto l'estromissione dal giudizio della Regione Puglia, nell'assunto che fosse subentrata nei soli rapporti obbligatori perfezionatisi successivamente al 31 dicembre 1993, senza considerare il tempo della certezza e liquidità della partita debitoria.
1.1. Il motivo è infondato.
La questione è stata già sottoposta alla vaglio della Corte e risolta del senso che la disciplina posta dalla legge Regione Puglia 31 ottobre 1995, n. 37, con la prevista cessazione delle gestioni in affidamento precario del servizio pubblico di trasporto su linee extra-urbane e l'istituzione di apposite gestioni stralcio per la definizione e la liquidazione di ogni partita debitoria maturata successivamente al 31 dicembre 1993, non ha determinano l'estinzione dell'azienda, precedentemente concessionaria del servizio, con la conseguenza che l'(omissis), è rimasta parte dei rapporti obbligatori inerenti al periodo precedente alla data predetta (cfr. Cass. 3702/1999 e 8409/2000; in particolare, Cass. 8697/2000, alla cui motivazione si rinvia per più ampi riferimenti).
Né la legge, in relazione agli anzidetti rapporti obbligatori, autorizza a ritenere aggiunta la Regione all'originario debitore, poiché il riferimento alla "maturazione" esprime chiaramente il concetto dell'estraneità della Regione stessa ai rapporti obbligatori perfezionatisi negli elementi costitutivi prima della data indicata.
2. Con il secondo motivo, l'Azienda ricorrente - nel denunciare falsa applicazione dell'art. 36 Cost. e dell'art. 2109 cod. civ., nonché violazione dell'art. 12 disp. prel. cod. civ. e degli artt. 1226 e 2697 cod. civ., nonché vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione - sostiene che il Tribunale avrebbe dovuto considerare che il dipendente aveva fruito di 14 giorni di riposo convenzionale, che si aggiungevano ai cinquantadue garantiti dal precetto costituzionale, ed operare, conseguentemente, la detrazione, anno per anno, dei riposi convenzionali da quelli non goduti.
2.1. Con il terzo motivo, denunciando violazione e falsa applicazione dei principi in materia di prova della lesione e del danno (artt. 1218, 1223, 1227, 2697, 2727, 2729 cod. civ.), nonché dell'art. 36 Cost. ed il vizio di insufficiente motivazione, l'(omissis) assume che il danno subito avrebbe dovuto essere concretamente provato dal lavoratore, non trattandosi, come erroneamente ritenuto dal Tribunale, di danno presunto o in re ipsa.
2.2. Con il quarto motivo, la ricorrente deduce ancora violazione degli artt. 1223 e 1227, primo e secondo comma, cod. civ. e dell'art. 36 Cost., censurando la sentenza impugnata per non avere considerato che la prestazione del lavoro nel settimo giorno era stata una libera scelta dei lavoratori, i quali, in tal modo, avrebbero attivamente concorso alla produzione del preteso danno.
2.3. Con il quinto motivo l'(omissis) denuncia violazione e falsa applicazione, sotto altro profilo, degli artt. 1223, 1227 e 2126 cod. civ. (art. 360, n. 3, c.p.c.), oltre che il vizio di insufficiente motivazione (art. 360, n. 5, c.p.c.). Secondo la ricorrente, il Tribunale non ha applicato il principio della compensano lucri cum danno, il quale comportava non solo di tenere conto, comunque, di quanto corrisposto per il mancato riposo, ma anche di ritenere nella specie il danno interamente risarcito.
2.4. Con il sesto motivo, si chiede l'annullamento della sentenza per violazione e falsa applicazione degli art. 1193, 1223 e seg., 1362 e 1363 cod. civ., dell'art. 1 R.D. 8 gennaio 1931, n. 148, nonché omessa e insufficiente motivazione, sostenendo che erroneamente il Tribunale ha ritenuto che gli artt. 16 e 17 del contratto collettivo contemplassero una maggiorazione della paga ordinaria non riferibile all'ipotesi di risarcimento del danno. Invece, la normativa contrattuale prevedeva un'aggiunta di retribuzione, oltre il complemento costituito dal 50% della paga conglobata per le ore non lavorate, proprio per compensare il mancato riposo.
3. Sulla premessa che la controversia ha ad oggetto esclusivamente il risarcimento di ciò che il Tribunale definisce "danno alla salute", cagionato dal mancato rispetto da parte del datore di lavoro della regola inderogabile del diritto del prestatore d'opera al riposo settimanale, il ricorso è meritevole di accoglimento nella parte in cui denuncia (particolarmente, con il terzo motivo, ma anche, in una certa misura, con il quarto) l'errore dì diritto consistito nel ritenere che l'inadempimento in questione abbia prodotto il pregiudizio di un diritto fondamentale della persona, pregiudizio risarcibile, secondo la sentenza impugnata, senza bisogno di darne dimostrazione alcuna.
4. Per la ricognizione degli orientamenti espressi dalla Corte sulla questione, è opportuno prendere le mosse dal riconoscimento del diritto del lavoratore subordinato ad un supplemento di retribuzione diretto a compensare la "penosità" del lavoro svolto nel giorno di domenica (con riposo compensativo in altro giorno della settimana), all'interno di una prospettiva esclusivamente retributiva che si fonda sul rilievo che l'art. 36 Cost. commisura la retribuzione anche alla "qualità" del lavoro, da valutare con riguardo al maggior costo personale richiesto al dipendente (Cass. 5416/1988; 1085/1989; 22 55/1999 ed altre numerose conformi). Trattandosi di retribuzione, evidentemente, nessuna prova '* del "disagio" patito in concreto deve essere fornita dal lavoratore.
5. A partire da Cass., s.u., 1607/1989, si è consolidato l'indirizzo secondo il quale, nel caso di lavoro prestato nel settimo giorno senza riposo compensativo, oltre alla retribuzione (con le relative maggiorazioni connesse alla maggiore penosità della prestazione), al lavoratore spetta anche il risarcimento del danno subito a causa dell'usura psico-fisica che il lavoro nel settimo giorno comporta, e ciò, naturalmente, ad un titolo del tutto autonomo rispetto a quello del compenso per la maggiore "penosità" del lavoro.
La sentenza non si occupa specificamente della necessità di dimostrare in concreto l'usura psico-fisica, ancorché sembri ritenerla un effetto costante della gravosità della prestazione.
6. A seguito dell'intervento delle sezioni unite, sono numerose le sentenze che enunciano espressamente il principio che dall'inadempimento del datore di lavoro discende automaticamente, cioè senza bisogno della relativa prova, la ragione di danno relativa all'usura psico-fisica (cfr. ex plurimis, Cass., 12334/1997; 867/1998; 704/1999; 2455/2000).
7. E tuttavia vi sono non poche decisioni di segno opposto, sia con riguardo alla questione specifica posta dalla controversia (Cass. 2004/1996), sia in relazione a inadempimenti del datore di lavoro assunti come incidenti sulla salute dei dipendenti (Cass., 8835/1991, per il caso di un dirigente lasciato per lungo tempo inattivo; Cass. 7905/1998, per l'ipotesi del pregiudizio professionale derivante da "dequalificazione"; Cass. 143/2000, con riguardo a molestie sessuali sul luogo di lavoro; Cass. 1307/2000, con riguardo alla lesione all'integrità fisio-psichica derivante dalla mancata fruizione di ferie), decisioni che richiedono tutte, in applicazione dell'art. 2697 c.c., che il cosiddetto danno biologico (o comunque la lesione di altro diritto fondamentale della persona) venga provato nella sua esistenza e nel nesso di causalità con l'inadempimento, esistenza che costituisce presupposto indispensabile per una valutazione equitativa, giacché non si pone quale conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo del datore di lavoro.
8. Non esiste, quindi, per quanto riferito, uniformità degli indirizzi giurisprudenziali sulla questione e la Corte, rimeditata la questione, ritiene di dover sottoporre a revisione i propri precedenti orientamenti espressi, in buona parte, proprio in relazione a controversie con l'(omissis) di contenuto analogo, orientamenti ai quali si è attenuta la sentenza impugnata.
9. La lettura conforme alla Costituzione delle norme che disciplinano la responsabilità civile impone di interpretarle nel senso che, in caso di lesione di un diritto fondamentale della persona, il rimedio del risarcimento del danno non possa essere negato per il fatto che il pregiudizio sofferto non sia di natura patrimoniale, e ciò in via generale e non alla stregua della circoscritta previsione dell'art. 2059 c.c.
Tale principio si è consolidato a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 186 del 1984, recante l'interpretazione in senso costituzionalmente orientato dell'art. 2043 c.c., norma che tutela anche e soprattutto i diritti fondamentali della persona, quale il diritto alla salute, ed impone di risarcire il danno per il fatto stesso della lesione, indipendentemente dal verificarsi anche di pregiudizi di ordine patrimoniale, in termini di danno emergente o di lucro cessante.
10. Peraltro, la stessa Corte costituzionale ha successivamente chiarito (sentenza n. 372 del 1994) che il danno biologico non è presunto, siccome identificabile col fatto illecito lesivo della salute, giacché, se è indiscutibile che la prova della lesione è, in re ipsa, anche prova dell'esistenza del danno, è pur sempre necessaria la prova ulteriore dell'entità del danno, ossia la dimostrazione che la lesione ha prodotto una perdita di tipo analogo a quello indicato dall'art. 1223 c.c., costituita dalla diminuzione o privazione di un valore personale (non patrimoniale), alla quale il risarcimento deve essere commisurato.
11. Nella controversia vengono in considerazione i diritti inderogabili e indisponibili attribuiti dall'art. 36 Cost. ai lavoratori subordinati.
Si tratta, però, - ed è questo l'elemento centrale che deve presiedere alla soluzione del problema - di diritti pur sempre di natura econornica, (sono compresi del Titolo III della Carta fondamentale, concernente i "Rapporti economici"), discendenti indefettibilmente dalla stipulazione di un contratto individuale di lavoro, ma tuttavia posti a tutela anche di interessi non strettamente patrimoniali (esistenza libera e dignitosa, necessità che sia garantito il recupero delle energie ed in definitiva tutelato anche il bene della salute e del benessere in senso ampio del lavoratore dipendente).
12. In particolare, il divieto di protrazione del lavoro per più di sei giorni consecutivi (o, per le eccezioni previste dalla legge, per un arco di tempo eccedente quello desumibile dal precetto costituzionale: si veda l'art. 5 L. 370/1934 e C. Cost. n. 105/1972), comporta la nullità di ogni patto contrario; a norma, poi, dell'art. 2126, comma secondo, cod. civ., se il lavoro è prestato con violazione di norme poste a tutela del prestatore di lavoro, questi ha in ogni caso diritto alla retribuzione (indipendentemente, quindi, dalle sanzioni - cfr. art 27 e 28 della legge del 1934 - previste per detta violazione).
Orbene, la retribuzione deve essere proporzionale alla quantità e qualità del lavoro prestato (art. 36 Co st.), e, secondo quanto precisato dagli indirizzi giurisprudenziali richiamati ai nn. 4 e 5, il lavoro prestato oltre il sesto giorno i consecutivo è più gravoso di quello scandito dalle prescritte pause settimanali, con l'effetto che deve essere corrisposta una maggiore remunerazione, spettante in misura proporzionalmente ridotta anche nel caso in cui la penosità risulti parzialmente compensata dalla fruizione di riposi in giorni successivi. 13. Nessun dubbio che le violazioni del contratto potrebbero anche tradursi in lesione di diritti personali, originando sia responsabilità contrattuale (si veda l'art. 2087 c.c.), sia responsabilità ai sensi dell'art. 2043 c.c. In particolare, l'inadempimento dell'obbligazione retributiva potrebbe ledere la dignità, come la mancata concessione delle ferie e di riposi potrebbero pregiudicare la salute e la vita di relazione in senso più comprensivo.
Evidentemente, la pretesa al risarcimento di pregiudizi siffatti si colloca î completamente fuori dall'area della corrispettività (retribuzione in senso ampio) del contratto e, con specifico riguardo al mancato godimento del riposo settimanale, non ha ad oggetto i maggiori compensi collegati alla particolare penosità del lavoro. 14. Tale danno, come osservato, può consistere nella lesione dell'integrità fisio-psichica, cioè nel danno alla salute o danno biologico in senso stretto, oppure in quello che più genericamente si designa come "danno esistenziale", al fine di coprire tutte le compromissioni delle attività realizzatrici della persona umana (es. impedimenti alla serenità familiare, al godimento di un ambiente salubre e di una situazione di benessere, al sereno svolgimento della propria vita lavorativa).
Secondo alcune opinioni, invero, la nozione di danno alla salute si presterebbe a comprendere anche i concreti pregiudizi alla sfera esistenziale, ma proprio il discorso in ordine alla prova dell'esistenza del danno induce a distinguere nettamente la lesione dell'integrità fisica o psichica (cioè, la presenza di una patologia oggettiva, che si accerta secondo precisi parametri medico-legali), dal pregiudizio esistenziale, che, senza ridursi al mero patema di animo interno, richiama tuttavia disagi e turbamenti di tipo soggettivo.
Ciò non vale ad escludere il cd. "danno esistenziale" dall'ambito dei diritti inviolabili, poiché non è solo il bene della salute a ricevere una consacrazione costituzionale sulla base dell'art. 32, ma anche il libero dispiegarsi delle attività dell'uomo nell'ambito della famiglia o di altra comunità riceve considerazione costituzionale ai sensi degli art. 2 e 29.
15. Pertanto, tanto i pregiudizi alla salute quanto quelli alla dimensione esistenziale, sicuramente di natura non patrimoniale, non possono essere lasciati privi di tutela risarcitoria, sulla scorta una lettura costituzionalmente orientata del sistema della responsabilità civile (cfr. Cass. 7713/2000, in tema di pregiudizi di ordine non patrimoniale subiti dal figlio naturale per il fatto della mancata corresponsione dei mezzi di sussistenza da parte del genitore).
In conclusione, secondo i risultati già acquisiti in tema di danno alla salute, poiché la persona umana è costituzionalmente tutelata nel suo sviluppo e nelle sue manifestazioni, il rango della posizione soggettiva inviolabile - con esclusione, quindi, dei meri disagi che trovano origine nella personale sensibilità del soggetto - impone di ritenere inoperanti i limiti alla risarcibilità del danno non patrimoniale risultanti dall'art. 2059 c.c.
16. Orbene, l'art. 36 Cost., come si è già avvertito, non tutela diritti fondamentali della persona, ma diritti economici derivanti dal contratto di lavoro, ancorché le disposizioni (in tema di retribuzione sufficiente, come di ferie e di riposo settimanale) abbiano lo scopo di garantire il benessere in senso ampio dei lavoratori dipendenti.
Il comportamento antigiuridico del datore di lavoro, in quanto tenuto in violazione dei precetti dell'art. 36 Cost. (ma non solo), non vi è dubbio che possa ledere non solo i diritti economici ma anche diritti fondamentali.
Ma proprio per questo il pregiudizio di un diritto inviolabile della personalità deve essere da colui che lo invoca allegato e provato (sia pure con ampio ricorso alle presunzioni, allorché non si versi nell'ambito del pregiudizio della salute in senso stretto, in relazione al quale l'alterazione fisica o psichica è oggettivamente accertabile), nei suoi caratteri naturalistici (incidenza su di una concreta attività, pur non reddituale, e non mero patema d'animo interiore) e nel nesso di causalità dalla violazione dei diritti patrimoniali di cui all'art. 36 Cost.
Su di un piano diverso e logicamente successivo, una volta accertato il cd. danno evento (cioè il pregiudizio del diritto fondamentale), si colloca la valutazione del cd. danno-conseguenza, cioè dell'entità del sacrificio sofferto, ai fini di una liquidazione naturaliter equitativa.
17. Sotto il profilo della prova della lesione del diritto alla salute o del diritto alla libera esplicazione delle attività realizzatrici della persona umana, inoltre, può assumere adeguata rilevanza il consenso del lavoratore a rendere la prestazione nel giorno di riposo, consenso che, esattamente ritenuto irrilevante dalla giurisprudenza della Corte per ridurre l'ambito dell'inadempimento imputabile al datore di lavoro - stante l'indisponibilità del diritto al riposo - può nondimeno offrire elementi indiziari per la verifica della sussistenza in concreto della lesione (anche) di un diritto di natura non patrimoniale.
18. Sulla base delle considerazioni svolte, la sentenza impugnata è affetta da errore di diritto nella parte in cui ha affermato che il risarcimento - che ha liquidato equitativamente - del danno da usura spetta automaticamente al lavoratore in conseguenza della violazione del diritto al riposo settimanale, senza che occorra neppure allegare il pregiudizio concreto subito in conseguenza del lavoro prestato nel giorno di riposo. In altri termini, ha giudicato nel presupposto erroneo che la violazione di un diritto costituzionalmente garantito, ancorché di natura patrimoniale, comporti in ogni caso lesione anche di un diritto della persona, cioè di un diritto suscettibile di essere sanzionato con il rimedio della responsabilità civile a prescindere da pregiudizi di ordine patrimoniale.
L'accoglimento del ricorso sotto il -suddetto profilo comporta l'assorbimento dell'esame delle altre censure e, ai sensi dell'art. 384, comma primo, cod. proc. civ., la cassazione senza rinvio della sentenza impugnata, con la decisione di merito del rigetto della domanda, in quanto - come con evidenza si desume dai contenuti della sentenza impugnata e del controricorso, che sviluppano esclusivamente la tesi della lesione in re ipsa del diritto fondamentale della persona - non vi sono da compiere ulteriori accertamenti di fatto.
19. Sussistono evidenti giusti motivi per compensare interamente fra le parti le spese dei gradi dì merito e del giudizio di cassazione. Nulla da provvedere nei riguardi della Regione Puglia, non costituita.
PER QUESTI MOTIVI
La Corte, in accoglimento del ricorso per quanto di ragione, cassa la sentenza impugnata senza rinvio e, decidendo nel merito, rigetta la domanda proposta nei confronti dell'(omissis); compensa interamente fra le parti costituite le spese dei giudizi di merito e di cassazione; nulla da provvedere per le spese del giudizio di cassazione nei riguardi della Regione Puglia.
Roma, 3 luglio 2001.