Dott.ssa Francesca Micolucci - Ebbene sì, a volte anche un semplice commento su Facebook può integrare la fattispecie delittuosa della diffamazione prevista e disciplinata dall'art. 595 del c.p.
Per comprendere al meglio quanto previsto dalla sentenza pronunciata dal Tribunale di Campobasso in tema di diffamazione aggravata, è necessario partire da quanto disposto dalla norma poc'anzi citata.
Il reato di diffamazione
L'art. 595 del c.p. prevede che: "Chiunque, fuori dei casi indicati nell'articolo precedente, comunicando con più persone, offende l'altrui reputazione, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a milletrentadue euro.
Se l'offesa consiste nell'attribuzione di un fatto determinato, la pena è della reclusione fino a due anni, ovvero della multa fino a duemilasessantacinque euro.
Se l'offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a cinquecentosedici euro.
Se l'offesa è recata a un Corpo politico, amministrativo o giudiziario, o ad una sua rappresentanza, o ad una Autorità costituita in collegio, le pene sono aumentate".
La norma ha come obbiettivo quello di garantire la cosiddetta reputazione dell'individuo, ovvero l'onore inteso in senso soggettivo quale considerazione che il mondo esterno ha del soggetto stesso. Di conseguenza colui che lede questo diritto dev'essere punito secondo quelli che sono i dettami della legge.
In che modo può essere commesso il reato di diffamazione?
Il reato di diffamazione può essere posto in essere in diversi modi. Quello analizzato in questa sede riguarda in particolare il caso in cui esso sia posto in essere attraverso Facebook.
A primo impatto la vicenda può sembrare paradossale, ma non è così dal momento che Facebook, in più occasioni, è stato definito un mezzo idoneo a raggiungere un numero apprezzabile ed indeterminato di persone. Sempre nel 2017, la Corte di Cassazione con la sentenza n. 4873/2017 ha affermato che "La diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l'uso di una bacheca Facebook integra un'ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell'art. 595, comma terzo, cod. pen., sotto il profilo dell'offesa arrecata "con qualsiasi altro mezzo di pubblicità" diverso dalla stampa, poiché la condotta in tal modo realizzata è potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato, o comunque quantitativamente apprezzabile, di persone e tuttavia non può dirsi posta in essere "col mezzo della stampa", non essendo i social network destinati ad un'attività di informazione professionale diretta al pubblico [1]".
Il caso affrontato dal Tribunale di Campobasso
L'orientamento della Corte di Cassazione poc'anzi riportato è stato confermato ed arricchito dal Tribunale di Campobasso con la sentenza n. 396/2017.
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Con tale sentenza i giudici molisani hanno condannato per diffamazione alcuni soggetti che si erano resi responsabili del reato di diffamazione aggravata nei confronti di un magistrato (per aver leso su Facebook la reputazione di quest'ultimo).
In particolare uno di questi soggetti aveva pubblicato un post sul suo profilo nel quale offendeva il giudice che lo aveva condannato al versamento di una somma in favore della cassa delle ammende.
Questo perché il soggetto, nonostante fosse stato chiamato a testimoniare in udienza, non si era presentato senza alcuna giustificazione valida (nonostante gli fosse stata notificata l'intimazione a comparire).
Il post diffamatorio fu "letto", in poco tempo, da un numero di utenti particolarmente elevato. Di conseguenza i vari "mi piace" furono numerosissimi; ma ciò che ha aggravato la posizione del soggetto in questione furono soprattutto i numerosi commenti denigratori e diffamatori rivolti al magistrato ed alla categoria in generale. Alla luce di ciò, il Tribunale ha ritenuto responsabili penalmente per diffamazione aggravata sia l'autore del post incriminato che due dei suoi "amici".
Il presupposto della vicenda specifica era, innanzitutto, individuare i veri responsabili del post e dei commenti e che le offese fossero effettivamente riferite al giudice del processo nel quale l'autore del post era stato a testimoniare.
Quindi, dopo aver individuato l'offesa ad una persona determinata, l'autore del post ed il destinatario di quest'ultimo, il Tribunale ha riconosciuto nei confronti di tutti gli imputati l'aggravante prevista dal terzo comma dell'art. 595 c.p. (oltre che quella di cui al comma 4) posto che la diffamazione tramite internet costituisce un'ipotesi di diffamazione aggravata in quanto commessa con altro (rispetto alla stampa) mezzo di pubblicità.
Concludendo, per i giudici un commento denigratorio pubblicato su Facebook ha potenzialmente la capacità di raggiungere un numero indefinito ed imprecisato di persone.
Inoltre, per l'idoneità del mezzo utilizzato, può determinare un'ampia possibilità di circolazione del commento tra un numero alto di persone.
Nonostante sia garantita la libertà di pensiero, così come previsto dall'art. 21 Cost, essa ha dei limiti nel rispetto altrui e nella tutela dell'ordine pubblico e del buon costume. Nonché, si rammenta, nel diritto di ogni cittadino all'integrità dell'onore, del decoro, della reputazione.
Pertanto il caso in esame riguarda il reato di diffamazione aggravata e come tale va punito.
[1] Massima Cass. 4873/2017
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