di Lucia Izzo - Scatta l'accusa di stalking nei confronti di chi prende continuamente in giro il collega facendogli numerosi dispetti. Anzi, ove la "vittima" sia anche affetta da handicap scatta l'aggravante prevista dal terzo comma dell'art. 612-bis del codice penale.
Con la sentenza n. 18717/2018 (qui sotto allegata) la Corte di Cassazione, prima sezione penale, si è pronunciata sul ricorso del "bullo" che aveva umiliato un collega con diverse condotte moleste, scherzi e dispetti, ridicolizzandolo anche a causa delle sue menomazioni psicofisiche e della sua fragilità.
In Cassazione, l'imputato tenta di screditare la motivazione della sentenza impugnata cercando di "minimizzare" l'accaduto, affermando si trattava di scherzi e condotte isolate. Invece, secondo gli Ermellini, la Corte di merito ha motivato correttamente e in maniera efficace e analitica il suo provvedimento in ordine alla sussistenza del reato.
Dall'istruttoria compiuta in primo grado e dal narrato testimoniale era infatti emerso un quadro di vero e proprio "bullismo" sul posto di lavoro nei confronti del collega più debole, assunto nella ditta di auto spurgo con le quote disabili, in quanto invalido al 50% poiché affetto dagli esiti di un ictus.
Le condotte in danno alla vittima erano state reiterate, quasi quotidiane, con frequenti prese in giro e dispetti tesi a ridicolizzarlo proprio a causa della sua menomazione mentre svolgeva la sua attività alle dipendenze della ditta in cui lavorava anche l'imputato.
Una condizione chiaramente percepita da chi gli stava vicino e conosciuta nell'ambiente di lavoro trattandosi di un contesto frequentato da una comunità di soggetti a stretto contatto, ove la fragilità della vittime e le limitazioni oggettive subite per le condizioni di salute lo avevano esposto indifeso all'altrui cattiveria e alle persecuzioni dell'imputato.
Reato di stalking per chi molesta e fa dispetti al collega di lavoro
Per i giudici, i comportamenti messi in atto dall'imputato sarebbero stati intrinsecamente molesti per chiunque e non soltanto per le condizioni della vittima, perché volti a ridicolizzarla, ad infastidirla, a prospettarne l'immagine in un momento di difficoltà e d'imbarazzo, a suscitare in lei sentimenti di vergogna e a esporla alla derisione collettiva nell'ambito della comunità dei soggetti frequentatori la sede dell'impresa datrice di lavoro.
In altri termini, tali condotte non rappresentavano scherzi occasionali e avevano ingenerato un forte disagio nella vittima che aveva dovuto ricorrere alle cure dei sanitari, aveva sviluppato un grave stato ansioso, a causa del quale si era dovuto assentare dall'attività, motivo poi del suo licenziamento con grave pregiudizio patito per l'impossibilità di maturare l'anzianità pensionistica.
Il che è sufficiente per ritenere individuato e giustificato il ravvisato vincolo causale tra comportamenti persecutori e l'imposta modifica delle abitudini di vita della vittima. Anzi, correttamente la Corte d'Appello ha ravvisato l'elemento materiale del delitto in contestazione e la circostanza aggravante di cui al comma 3 dell'art. 612-bis del codice penale.
La condanna per il reato non è esclusa neppure dal fatto che vittima e persecutore avessero raggiunto bonariamente un accordo sul risarcimento. Nonostante tutto, i giudici si vedono costretti ad annullare senza rinvio la sentenza impugnata in quanto il reato risulta estinto per prescrizione.
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