di Lucia Izzo - È illegittimo il licenziamento del dipendente licenziato per aver registrato conversazioni sul posto di lavoro, all'insaputa dei colleghi, se le registrazioni, mai diffuse all'esterno, si erano rese necessarie al lavoratore per precostituirsi di elementi di difesa per salvaguardare la propria posizione in azienda.
Il d.lgs. n. 196/2003 consente di derogare al necessario consenso dell'interessato ove il trattamento dei dati sia destinato a far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria e/o a svolgere le investigazioni difensive previste dalla legge n. 397/2000, ad esempio per documentare le problematiche esistenti sul posto di lavoro e a salvaguardare la propria posizione,
Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, sezione lavoro, nella sentenza n. 11322/2018 (qui sotto allegata) accogliendo il ricorso di un dipendente di una compagnia assicurativa inteso a ottenere la declaratoria di illegittimità del licenziamento intimatogli e la reintegra nel posto di lavoro
La vicenda
In particolare, al dipendente era contestato di aver, in sede di giustificazioni orali in merito ad altra precedente contestazione della società, consegnato una chiavetta USB contenente registrazioni di conversazioni effettuate in orario e sul posto di lavoro, coinvolgenti altri dipendenti a insaputa degli stessi.
La Corte d'Appello, in riforma della pronuncia del Tribunale, riteneva illegittimo il provvedimento espulsivo, sproporzionato rispetto ai fatti contestati, e per l'effetto condannava la società soltanto a risarcire al lavoratore un'indennità pari a 15 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto.
Per il giudice a quo, infatti, questi aveva adottato tutte le cautele al fine di evitare la diffusione dei dati raccolti e, inoltre, le persone registrate erano rimaste all'oscuro delle registrazioni, almeno finché il direttore delle risorse umane non li aveva informati dopo essere venuto in possesso dei file.
Il dipendente, non solo, non aveva né utilizzato né diffuso il contenuto delle registrazioni, ma si era procurato quei dati per tutelare un proprio diritto, ovvero per documentare le problematiche esistenti sul posto di lavoro.
In pratica, la condotta era stata realizzata dal dipendente "per tutelare la propria posizione all'interno dell'azienda, messa a rischio da contestazioni disciplinari non proprio cristalline" e per "precostituirsi un mezzo di prova visto che diversamente avrebbe potuto trovarsi nella difficile situazione di non avere strumenti per tutelare la propria posizione ritenuta pregiudicata dalla condotta altrui"
Doveva quindi escludersi ogni rilevanza penale della presunta violazione della privacy, sussistendo nella specie l'ipotesi derogatoria rispetto alla necessità di acquisire il consenso dei soggetti privati interessati dalle registrazioni.
Ciò posto, il lavoratore contesta la sola tutela risarcitoria riconosciutagli dalla Corte d'Appello, in quanto, dopo aver rilevato come i suoi comportamenti non integrassero una violazione della legge sulla privacy, il giudice avrebbe dovuto escludere a monte la giusta causa di licenziamento.
Possibile registrare i colleghi per tutelare il proprio posto di lavoro
Gli Ermellini confermano che il trattamento dei dati personali può essere eseguito anche in assenza del consenso dell'interessato se, ex art. 24, co. 1, lettera f), del d.lgs. n. 196/2003, volto a far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria o per svolgere le investigazioni difensive previste dalla legge n. 397/2000.
Ciò a condizione che i dati siano trattati esclusivamente per tali finalità e per il periodo strettamente necessario al loro perseguimento. Tale deroga, dunque, rende l'attività, se svolta nelle condizioni ivi previste, di per sé già a monte lecita e, inoltre, in tale ipotesi, mancherebbe anche il presupposto delle condotte incriminatrici previste dall'art. 167, co. 1, dello stesso decreto a tutela della privacy.
Nel caso in esame, tale deroga è stata ritenuta operante dalla Corte territoriale, poiché l'assenza del consenso era correlata a far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria: inoltre, era acclarato come il dipendente, che aveva registrato i colloqui a cui egli stesso era presente, avesse adottato tutte le dovute cautele al fine di non diffondere le registrazioni effettuate all'insaputa dei soggetti coinvolti ed aveva agito solo per premunirsi di fonti di prova che sarebbero state altrimenti di difficile reperimento (per eventuali possibili "sacche di omertà") per difendersi dalle contestazioni disciplinari.
Per questo la sua condotta è da considerarsi legittima, pertinente alla tesi difensiva del lavoratore e non eccedente le sue finalità. Inoltre, per gli Ermellini, non solo non è integrato l'illecito penale, ma neppure quello disciplinare, rispondendo la condotta alle necessità conseguenti al legittimo esercizio di un diritto. Altro sarebbe stato, invece, se le conversazioni e registrazioni tra presenti fossero state effettuate a fini illeciti (ad esempio estorsivi o di violenza privata).
Non sussiste, dunque, la pretesa violazione della privacy di cui si sarebbe reso colpevole il lavoratore, dovendosi ritenere la sua condotta legittima e inidonea a ledere il vincolo fiduciario sotteso al rapporto di lavoro, fondato, come di regola, sulle capacità del dipendente di adempiere in modo puntuale l'obbligazione lavorativa.
Accolto il ricorso, sarà dunque il giudice del rinvio a pronunciarsi sulla reintegrazione del lavoratore, rammentando il principio di diritto secondo cui: "L'insussistenza del fatto contestato, di cui all'art. 18 St. lav., come modificato dall'art. 1, co. 42, della L. n. 92 del 2012, comprende l'ipotesi del fatto sussistente ma privo del carattere di illiceità, sicché in tale ipotesi si applica la tutela reintegratoria, senza che rilevi la diversa questione della proporzionalità tra sanzione espulsiva e fatto di modesta illiceità".