di Lucia Izzo - Chi impone al partner un rapporto sessuale indesiderato rischia una condanna per violenza sessuale. È quanto occorso a un marito, condannato ex art. 609-bis c.p. per aver costretto la moglie a subire atti sessuali consistiti in un rapporto completo, dopo averla buttata nel letto e averle tolto i pantaloncini e gli slip.
Un episodio, confermato dai familiari della donna e collocato in un contesto di sopraffazione che l'uomo aveva instaurato tra le mura domestiche, che gli è costato una condanna in sede di merito a tre anni e quattro mesi di reclusioni.
Sulla vicenda è stata poi chiamata a pronunciarsi la Corte di Cassazione, seconda sezione penale, come si desume dalla sentenza n. 19142/2018 (qui sotto allegata).
Nella sua impugnazione, l'imputato ha puntato a screditare le accuse mosse dalla persona offesa, ritenute prive di riscontri, nonché la stessa attendibilità della ex le cui dichiarazioni si ritiene siano state l'unico fondamento per l'affermazione della sua responsabilità.
In particolare, la difesa sostiene che la donna avesse accusato falsamente il marito al solo scopo di ottenere l'affidamento della figlia: assunto che sarebbe confermato dal fatto che la denuncia per tali fatti era stata presentata solo dopo la notifica del ricorso al Tribunale per i minorenni, proposto dallo stesso marito per ottenere l'affidamento della figlia minore.
Violenza sessuale obbligare il partner al rapporto indesiderato
La Cassazione rammenta come, secondo consolidata giurisprudenza, le dichiarazioni della persona offesa possano da sole, senza la necessità di riscontri estrinseci, essere poste a fondamento dell'affermazione di responsabilità penale dell'imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell'attendibilità intrinseca del suo racconto.
Questa, peraltro, deve in tal caso essere più penetrante e rigorosa rispetto a quella cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone di specie quando, in particolare, la persona offesa sia anche costituita quale parte civile.
La peculiare disciplina sopra delineata, spiegano i giudici, costituisce un riflesso del dato, tratto dalla comune esperienza giudiziaria, secondo il quale, in genere, la vittima delle condotte di abuso sessuale costituisce l'unico testimone del reato, consumandosi la violenza spesso tra le mura domestiche o, comunque, in contesti riservati e inaccessibili a terzi spettatori.
Per i giudici di merito, il racconto della persona offesa era apparso lineare e coerente, ben strutturato nel suo nucleo essenziale e arricchitosi via via di dettagli relativi ad aspetti più periferici della vicenda, anche grazie alle contestazioni compiute dalle parti processuali. Inoltre, si è sottolineata la genuinità della deposizione della vittima anche in rapporto alla partecipazione emotiva palesata dalla ragazza nel corso dell'audizione.
Inoltre, sotto altro profilo, i giudici di merito hanno attribuito particolare rilevanza al racconto dei familiari della persona offesa, in particolare della madre e della sorella, che hanno corroborato la versione sottolineando di essere state informate della violenza sessuale e del contegno aggressivo tenuto dall'uomo in altre circostanze, a causa del quale la vittima era dovuta ricorrere alle cure dei medici.
Ha fornito elementi di riscontro al racconto della vittima anche la deposizione dell'assistete sociale: sebbene la dottoressa non sia stata in grado di confermare in alcun modo l'esistenza di abusi attinenti alla sfera sessuale, ha riferito di avere ricevuto informazioni dalla donna sulle violenze patite dal marito e di avere visto, in occasione di un colloquio, i lividi che la donna presentava e che aveva ricondotto proprio a un litigio con il marito.
Alcun deficit motivazionale può, pertanto, essere mosso al giudizio compiuto dalla Corte d'Appello sull'attendibilità della persona offesa, sostanzialmente collimante con quella del giudice di prime cure. Anzi, la stessa Corte territoriale ha smentito le affermazioni sul movente calunnioso delle accuse, poiché l'affidamento della figlia (come affermato dallo stesso imputato) era stato oggetto di accordo tra i genitori. Il ricorso va dunque respinto.
Cass., II pen., sent. 19142/2018• Foto: 123rf.com