di Lucia Izzo - Il medico che sottovaluta la sintomatologia presentata dalla paziente durante una visita post operatoria e omette di prescrivere accertamenti strumentali a fini diagnostici e prescrive un presidio terapeutico generico va considerato in parte negligente e in parte imperito.
È errato escludere l'imperizia solo perché il medico è un clinico di sicuro valore in quanto la nozione di imperizia non va rivolta al soggetto nella sua complessiva attività e alle sue capacità professionali, ma al singolo atto qualificato come colposo e che viene a lui addebitato.
Inoltre, affinché possa valutarsi se la condotta del medico è colposa e penalmente rilevante non è possibile prescindere dalla verifica della conformità o meno del suo comportamento alle linee guida imposte ai sanitari dalla Legge Gelli-Bianco.
Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, quarta sezione penale, nella sentenza n. 24384/2018 (qui sotto allegata) accogliendo il ricorso di un medico condannato in appello per omicidio colposo, ex art. 589 c.p., a seguito della morte di una paziente avvenuta durante il decorso post operatorio.
Nel dettaglio, al medico si contestava la sottovalutazione diagnostica e l'omessa prescrizione dei necessari approfondimenti in occasione di una visita alla paziente. Questi, secondo i giudici, sarebbe stato in grado di formulare una diagnosi alternativa rilevando, almeno in via ipotetica, che la sintomatologia dolorosa accusata dalla paziente era dovuta all'occlusione intestinale che ne aveva poi provocato il decesso.
I giudici qualificano come imprudente la condotta del medico, quindi non come negligenza, né tanto meno come imperizia, e considerano irrilevante nel caso di specie valutare l'osservanza delle linee-guida (o delle buone pratiche) che la difesa del medico aveva ritenuto non disattese nella sua condotta.
Colpa medica: la conformità della condotta alle "best practices"
Una conclusione che non convince i giudici di Piazza Cavour: il giudice a quo, infatti, non avrebbe potuto omettere di valutare un tema di fondamentale importanza ai fini dell'individuazione della condotta colposa nell'ambito dell'esercizio della professione sanitaria come quello dell'osservanza delle c.d. "buone pratiche clinico-assistenziali" evocate da norme di legge (art. 3 legge 189/2012 e art. 6 legge 24/2017).
Tali norme, spiegano i giudici, seppur entrate in vigore in epoca successiva alla commissione del reato ascritto al medico, sono per lui più favorevoli e potenzialmente idonee a scriminarne (o a renderne non punibile) l'operato, in base ai criteri generali stabiliti dall'art. 2 del codice penale.
Nel lungo percorso argomentativo della sentenza impugnata non si ritrova, a detta degli Ermellini, alcuno specifico riferimento a elementi probatori o valutativi che consentono di escludere (o, per converso, di affermare) l'adesione dell'operato del ricorrente alle best practices.
Tale passaggio sarebbe stato tuttavia ineludibile stante la lettera dell'art. 590-sexies, comma secondo, c.p., introdotto della legge Gelli-Bianco. In sostanza, si rendeva necessario un previo, accurato, accertamento del rispetto da parte del medico dei protocolli sanitari prescritti per accertamenti diagnostici del tipo e nelle condizioni di cui alla visita effettuata sulla paziente.
Tale necessità, concludono i giudici, si poneva non solo per una compiuta disamina della rilevanza penale della condotta (eventualmente) colposa ascrivibile al sanitario, ma anche per un'indagine su quello che sarebbe stato il comportamento alternativo diligente che ci si doveva attendere da lui, in funzione dell'analisi controfattuale della riferibilità causale del decesso della paziente alla sua condotta.
Nello specifico, in assenza di linee guida concordanti sul punto, il riferimento doveva essere ai criteri della "vigile attesa" accreditati dalla letteratura scientifica.
Colpa medica: l'imperizia non è esclusa dal valore del sanitario
Ancora, la Corte ha inquadrato la condotta del medico come imprudente piuttosto che negligente o imperita: un comportamento che, secondo gli Ermellini, punta a evitare che al caso di specie possa essere applicata la causa di non punibilità introdotta dalla legge Gelli-Bianco e riferita per l'appunto all'imperizia.
Secondo la giurisprudenza di legittimità richiamata in sentenza, l'imprudenza consiste nella realizzazione di un'attività positiva che non si accompagni nelle speciali circostanze del caso a quelle cautele che l'ordinaria esperienza suggerisce di impiegare a tutela dell'incolumità e degli interessi propri ed altrui.
Nella specie, la condotta tenuta medico, più che in un'attività positiva, sarebbe consistita in un'omessa o incompleta diagnosi, accompagnata da una sottovalutazione della sintomatologia che la paziente presentava, dall'omessa prescrizione di accertamenti strumentali a fini diagnostici e dalla prescrizione di un presidio terapeutico generico.
Quindi, ciò sembra semmai ascrivibile in parte al profilo della negligenza, in parte, e sotto altro profilo, a quello dell'imperizia. Quest'ultima nozione, infatti, non va rivolta al soggetto nella sua complessiva attività e alle sue capacità professionali, ma al singolo atto qualificato come colposo e che viene a lui addebitato.
Sarà dunque la Corte di merito, nel giudizio di rinvio, che nel rispetto dei principi forniti dalla Cassazione dovrà fornire risposta sia quanto al profilo della natura colposa della condotta del medico (ivi compreso l'accertamento del grado dell'eventuale colpa), sia sotto il profilo della sua rispondenza o meno ai criteri riconducibili alle buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica, sia sotto il profilo della portata salvifica che il comportamento eventualmente alternativo e ritenuto doveroso avrebbe avuto, attraverso un giudizio fondato su criteri di elevata probabilità logica e non su mere basi probabilistico-statistiche.