Il Tribunale di Verona solleva questione di legittimità costituzionale dell'art. 96, comma 3, c.p.c. per indeterminatezza della sanzione ivi prevista. Profili critici dell'ordinanza di remissione del giudice a quo

di Devis Baldi - Nella presente vicenda giudiziaria, il Giudice istruttore della causa iscritta a ruolo presso il Tribunale di Verona, all'esito del giudizio, ha riscontrato che gli assunti attorei presentassero caratteri di speciale infondatezza tali da giustificare la condanna per lite temeraria ai sensi dell'art. 96 comma 3, c.p.c.

Sennonché, il giudice monocratico anziché pronunciare immediatamente sentenza di condanna a carico della parte attrice, ha affrontato in chiave critica l'esegesi dell'art. 96 c.p.c.

Sostiene condivisibilmente il giudicante, invero, che l'incipit del terzo comma dell'articolo in esame "In ogni caso", lascerebbe supporre ragionevolmente che si tratti di un'ipotesi residuale rispetto a quelle contemplate nei commi precedenti, in specie a quella prevista dal primo comma ove è prevista la condanna al risarcimento dei danni nel caso in cui la parte soccombente abbia agito o resistito in giudizio con dolo o colpa grave.

Tuttavia, una lettura di questo tipo comporterebbe che in tutti i casi di mera soccombenza processuale dovrebbe aversi una condanna ulteriore a carico del soccombente ai sensi del terzo comma dell'art. 96 c.p.c. Pertanto, ritenuta come inammissibile una conseguenza di questo genere, sostiene il Giudice di merito, è preferibile interpretare anche il comma in esame come richiedente una condotta qualificata da mala fede o colpa grave.

Ciò premesso, però, il Giudice dubita che la disposizione di cui al terzo comma dell'art. 96 c.p.c. sia conforme alle norme costituzionali, di talchè solleva d'ufficio questione di legittimità costituzionale.

L'ordinanza di remissione

Questo il sillogismo seguito dal giudice a quo ai fini della supposta incostituzionalità della norma:

- recentemente, la Corte Costituzionale, prima (Sentenza n. 152/2016), e le Sezioni Unite, poi (Sentenza n. 16601/2017), hanno chiarito la natura ibrida e polifunzionale dell'istituto previsto nel comma 3 dell'art. 96 c.p.c., in quanto esso assolve sia ad una funzione lato sensu riparatoria che ad una funzione sanzionatoria.

In sostanza, l'art. 96, comma 3, c.p.c. rappresenterebbe una ipotesi tipizzata dei c.d. danni punitivi (punitive damages) di matrice anglosassone, che oramai permeano sempre più la legislazione dell'unione europea e, di riflesso, quella degli Stati membri;

- la condanna di cui all'art. 96, comma 3, c.p.c., nondimeno, non può non tenere conto dell'art. 23 Cost che, in combinato disposto con l'art. 25, comma 2, Cost, prevede che ogni prestazione patrimoniale può essere imposta soltanto in base alla legge. Di conseguenza, secondo il giudice a quo, ogni tipologia di condanna a pene pecuniarie dovrebbe restare soggetta al principio di tipicità e di prevedibilità;

- l'attuale formulazione della norma in esame, nell'applicazione che di essa ne fanno le varie Corti di merito e di legittimità, sta di fatto generando prassi interpretative di segno differente: invero, secondo un primo indirizzo la condanna ex comma 3, art. 96 c.p.c. dovrebbe commisurarsi ad una percentuale del valore della controversia; secondo altri, invece, dovrebbe identificarsi con una percentuale della somma liquidata in concreto a titolo di spese di lite; secondo altri ancora, infine, andrebbe parametrata all'indennizzo derivante da irragionevole durata del processo.

Di talchè, nella misura in cui la norma in esame non contempla limiti quantitativi minimi e massimi alla somma che deve essere oggetto di condanna, il giudice a quo ha sollevato q.l.c. per contrasto con gli articoli 23 e 25, comma 2, Cost.

Profili critici

Ad avviso di chi scrive, premesso che la predetta q.l.c. traccia comunque un'argomentazione logica, lineare e coerente, il sillogismo seguito dal giudice remittente non riesce a superare i seguenti profili critici:

1) qualora si ritenesse che il giudizio equitativo richiamato dal comma 3, art. 96 c.p.c. violasse i suddetti principi costituzionali, si rischierebbe di mettere in discussione tutte le norme contenute nella disciplina codicistica ed in numerose leggi speciali che, al contrario, si affidano a parametri di equità nella commisurazione delle sanzioni;

2) la supposta incostituzionalità del giudizio equitativo rispetto al canone della riserva di legge, rischierebbe di mettere in seria discussione l'ubi consistam del potere affidato al Giudice di sindacare e, quindi, di intervenire nei contratti asimmetrici, nonché in caso di sopravvenienze contrattuali che abbiano alterato l'originario equilibrio contrattuale, al fine di ricondurli ad equità: ipotesi che sono invece riconosciute sia da norme speciali che dall'oramai costante indirizzo giurisprudenziale di legittimità;

3) si dovrebbe dubitare della costituzionalità dello stesso processo di pace da decidere secondo equità, per le cause di valore inferiore ad euro millecento;

4) i parametri (equitativi) di liquidazione dei danni di natura non patrimoniale, non sarebbero più conformi a Costituzione;

5) il principio della "prevedibilità" della sanzione richiamato dal giudice a quo, sembra essere stato in realtà mutuato dall'ordinamento penalistico ove si richiede che chi pone in essere una condotta debba sapere in anticipo a quali tipo di conseguenze (penali) andrà incontro; nondimeno, questa equiparazione della sanzione civile alla sanzione penale non convince, considerando anche gli insegnamenti della giurisprudenza CEDU, quantomeno, qualora la prima non presenti un carattere di afflittività tale da essere equiparabile, per tipologia, severità ed idoneità ad incidere sulla sfera patrimoniale e personale, alla sanzione penale.

La parola in ogni caso alla Corte Costituzionale.


Sentenza Tribunale Verona

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