di Lucia Izzo - È legittima l'applicazione della misura cautelare del divieto di avvicinamento nei confronti dell'ex marito, indagato per stalking nei confronti della moglie: a fondare il provvedimento sono i suoi minacciosi e insistenti messaggi inviati alla donna sul cellulare e sui social, divenuti ancora più asfissianti dopo la separazione e la scoperta della nuova relazione di lei con un altro.
Ininfluente, sotto il profilo degli indizi ex art. 273 c.p.p., il fatto che le minacce siano rimaste puramente "virtuali" senza mai concretizzarsi in reati ulteriori.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, quinta sezione penale, nella sentenza n. 21693/2018 (qui sotto allegata) riguardante l'ordinanza, confermata dal Tribunale del Riesame, con cui il G.I.P. aveva applicato all'ex marito la misura cautelare del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla moglie.
Il provvedimento era conseguenza dell'imputazione provvisoria di atti persecutori del ricorrente nei confronti della donna, reiteratamente minacciata e molestata con continue e asfissianti comunicazioni avvenute a mezzo telefono, FB e Whatsapp che le avevano cagionato un perdurante stato di ansia e paura.
L'imputato impugna il provvedimento rilevando come le minacce lui ascritte non si erano mai concretizzate e si sarebbe comunque trattato di un solo episodio risalente a un anno e sette mesi prima dall'adozione della misura cautelare. Soggiunge che, prima della separazione, non vi era stato alcun comportamento negativo da parte sua.
Minacce "virtuali"? Legittimo l'allontanamento dell'ex indagato per stalking
Per gli Ermellini, tuttavia, il ricorso è inammissibile: l'ordinanza impugnata, infatti, sulla scorta dei dati indiziari tratti dal racconto della persona offesa, ritenuto credibile, ha ripercorso i fatti salienti oggetto dell'imputazione provvisoria ossia i plurimi messaggi offensivi molesti e minacciosi indirizzati dall'indagato alla persona offesa nel considerevole periodo indicato in querela (dal gennaio 2016 all'aprile 2017) e nelle successive dichiarazioni.
In particolare, il giudice del riesame aveva sottolineato due messaggi minacciosi, il primo dei quali prospettava "un macello" qualora l'indagato si fosse accorto che il figlio si trovava insieme con la persona offesa e con "quell'altro" (ossia, il suo nuovo compagno), mentre il secondo si riferiva al dar fuoco ad un lettino, evidenziando come le condotte avessero causato nella stessa persona offesa un evidente stato di timore.
Manifestamente infondata, dunque, è la deduzione che le minacce non si siano "concretizzate", ossia non siano state accompagnate da reati ulteriori rispetto a quello di atti persecutori contestato. Il riferimento all'epoca delle minacce stesse può venire in rilievo sul piano del presupposto cautelare, ma non inficia la tenuta del provvedimento impugnato sotto il profilo degli indizi ex art. 273 del codice di procedura penale.
Il Tribunale del riesame, infatti, ha argomentato circa l'aggravamento della condotta persecutoria successivamente alla separazione e alla conoscenza, in capo all'indagato, della relazione allacciata dalla persona offesa. Lo si desume delle sommarie informazioni rese dalla donna, a fronte delle quali la deduzione difensiva non articola alcun travisamento probatorio.
Quanto allo stato d'ansia o di timore della persona offesa, invece, l'ordinanza impugnata lo ha dedotto, in linea con il consolidato orientamento della giurisprudenza, dalla natura dei comportamenti tenuti dall'agente, qualora questi siano idonei a determinare in una persona comune tale effetto destabilizzante.
Manifestamente infondate sono anche le censure relative al presupposto cautelare, in quanto l'ordinanza impugnata ha dato conto dell'attualità del periculum, in termini coerenti ai dati indiziari richiamati e immuni da vizi logici, sulla base della reiterazione degli atti persecutori, oltre che della loro attualità. Il ricorso va dunque rigettato.
Cass., V pen., sent. n. 21693/2018
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