Individuando i presupposti necessari all'esperibilità della domanda, gli Ermellini confermano l'orientamento giurisprudenziale formatosi in materia.
- Il caso di specie
- L'azione di ingiustificato arricchimento
- L'azione di ingiustificato arricchimento contro la PA
- La decisione della Cassazione nel caso di specie
Il caso di specie
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Un soggetto promuoveva azione di ingiustificato arricchimento ex art. 2041 c.c. nei confronti di un Comune per aver espletato il servizio di nettezza urbana in virtù di un contratto decennale scaduto e successivamente prorogato.
La domanda giudiziale aveva ad oggetto in particolare il mancato aggiornamento del canone.
Il Tribunale rigettava la domanda attorea e la Corte d'Appello, in sede di impugnazione, ne confermava la decisione.
Il presunto depauperato adisce così la Corte di Cassazione deducendo, tra i motivi di ricorso, la violazione dell'art. 2041 c.c..
Secondo la prospettazione del ricorrente, i giudici di appello avrebbero errato nell'escludere la consapevolezza dell'utilità in capo al Comune poiché dagli atti risultava che questi avesse corrisposto un canone più elevato durante la vigenza del contratto, seppur per un solo semestre.
Per un migliore inquadramento della tematica di cui si discute, appare opportuno ricostruire brevemente il quadro normativo e giurisprudenziale dell'azione di ingiustificato arricchimento.
L'azione di ingiustificato arricchimento
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Il Codice civile del 1942 ha introdotto all'art. 2041 c.c. un principio generale del nostro ordinamento in forza del quale non sono ammessi spostamenti patrimoniali ingiustificati.
Si tratta di una norma di chiusura che opera in via sussidiaria e residuale dal momento che è applicabile per gli spostamenti patrimoniali ingiustificati che non siano già vietati da altre norme giuridiche.
Volendo individuare i presupposti richiesti dalla norma ai fini della proponibilità dell'azione, i quali dovranno essere provati dall'attore, essi sono:
- Arricchimento di un soggetto, da intendersi quale aumento del patrimonio o risparmio di spesa;
- Danno patrimoniale subito da un altro soggetto da cui discende l'impoverimento dello stesso;
- Unicità causale tra arricchimento e danno, dovendo essere originati da un medesimo fattore;
- Assenza di una giusta causa.
Ciò che si denota è l'assenza, tra i presupposti, dell'elemento soggettivo. E' un rilievo di non poco conto poiché, se dovesse sussistere il dolo o la colpa, si cagionerebbe un danno ingiusto con applicazione di quanto previsto dall'art. 2043 c.c.
Di converso, ogni qualvolta un soggetto si sia arricchito a danno di un altro, senza aver posto in essere una condotta dolosa o colposa, potrà essere destinatario dell'azione di cui all'art. 2041 c.c.
L'assenza di un profilo doloso o colposa attesta altresì perché la norma in questione non preveda un obbligo risarcitorio ma un obbligo di indennizzo, entro i limiti dell'arricchimento.
Come sostenuto sia in dottrina che in giurisprudenza, l'indennizzo svolge una funzione equitativa e di giustizia distributiva.
L'azione di cui si discute è configurabile laddove l'arricchimento sia cagionato dallo stesso soggetto che si arricchisce poiché, se ciò dipendesse da un atto commesso dall'impoverito, sarebbe applicabile la diversa azione di ripetizione dell'indebito di cui all'art. 2033 c.c..
L'azione di ingiustificato arricchimento contro la PA
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L'arricchimento ingiustificato può essere commesso anche da una Pubblica Amministrazione.
In una tale situazione, come nel caso di cui si discute, il privato depauperato può promuovere l'azione di cui all'art. 2041 c.c. nei confronti della PA.
La questione principale afferisce l'individuazione dei presupposti necessari per l'esperimento dell'azione.
In altri termini, i presupposti sono i medesimi di quelli previsti qualora l'arricchito sia un privato, oppure sussistono delle differenziazioni?
Prima che intervenissero le Sezioni Unite, con la sentenza 10798/2015, l'azione di ingiustificato arricchimento nei confronti di un ente pubblico era ammessa a condizione che si provasse un requisito ulteriore: il riconoscimento dell'utilità perseguita dalla PA.
Si prevedeva così un aggravio dell'onere probatorio in capo al privato.
Una tale soluzione si giustificava sull'assunto che un soggetto pubblico fosse un soggetto speciale, detentore un potere pubblico e che agisse nelle vesti di Autorità per perseguire il fine pubblico individuato dalla legge.
Se per la PA si prevede una disciplina speciale, la stessa specialità doveva riconoscersi anche in tema di arricchimento ingiustificato, dovendosi fornire la prova ulteriore del riconoscimento dell'utilità da parte del soggetto pubblico.
Un siffatto onere probatorio sottoponeva il privato depauperato ad una vera e propria probatio diabolica.
Dovendosi provare il riconoscimento dell'utilità, era necessario individuare il relativo atto di volontà, esplicito o implicito.
La necessità della volontarietà comportava che l'atto sarebbe potuto essere emanato da un solo organo rappresentativo e non anche tecnico.
Si aggiunga che un atto di volontà è un atto discrezionale con le relative limitazioni in tema di sindacato giurisdizionale, non potendosi il giudice sostituire alle valutazioni di merito svolte dalla PA.
L'orientamento maggioritario così descritto ha subito un arresto con il succitato intervento delle Sezioni Unite del 2015.
Il Supremo Consesso valorizza le finalità di equità e di giustizia distributiva, con la necessità di contemperare due differenti interessi: da un lato l'effettività e la pienezza della tutela del privato mentre, dall'altro lato, la tutela della finanza pubblica.
E' per questo motivo che le Sezioni Unite non ragionano in termini di riconoscimento dell'utilità da parte della PA ma di imputabilità dell'arricchimento in capo a quest'ultima.
L'imputabilità non corrisponde ad un requisito che deve essere provato dall'attore ma è un elemento che si presume.
Si impone così un'inversione dell'onere probatorio: sussistendo i requisiti ordinari richiesti dalla norma, il soggetto pubblico non sarà tenuto ad indennizzare il privato solo qualora dimostri che l'arricchimento non sia ad esso imputabile.
Si versa in una situazione di non imputabilità nei casi di arricchimento "imposto" che ricorre qualora l'arricchimento sia stato imposto dal privato, senza che la PA potesse opporsi, o contro il suo stesso volere o, da ultimo, senza che ne potesse essere a conoscenza.
Nelle situazioni da ultimo descritte, si coglie come non vi sia alcuna funzione equitativa da perseguire e, di conseguenza, l'azione di ingiustificato arricchimento è inammissibile.
La decisione della Cassazione nel caso di specie
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Ricostruito il quadro normativo e giurisprudenziale, si può ben cogliere come i giudici di legittimità con l'ordinanza in commento, relativamente al caso di specie, confermino l'impostazione delle Sezioni Unite.
Il Supremo Consesso ribadisce infatti che, ai fini della presentazione di un'azione di arricchimento ingiustificato nei confronti di una PA, il depauperato non debba provare il riconoscimento dell'utilità ma il solo fatto oggettivo dell'arricchimento.
Di contro, l'amministrazione non può opporre il mancato riconoscimento ma la sola imposizione dello stesso arricchimento.
Richiamando un'ulteriore pronuncia della stessa Cassazione, l'arricchimento può considerarsi "imposto"qualora sia la PA a provare di averlo rifiutato o di non averlo potuto rifiutare per inconsapevolezza (15937/2017).
Ripercorrendo quanto sostenuto dai giudici di merito, i fatti accertati in corso di giudizio non permettono di affermare una consapevolezza dell'arricchimento da parte del Comune.
Si deduce ciò dato che il servizio era stato prorogato come rapporto di fatto ed era stato attivato molti anni dopo la cessazione del rapporto, così come la revisione del compenso era altresì avvenuta molti anni dopo la conclusione del rapporto di proroga.
Siffatte situazioni inducono a non potersi rinvenire una situazione di ingiustificato arricchimento.
Per vero, la Cassazione non esclude che le doglianze del ricorrente avrebbero potuto comportare un diverso esito ma ciò risulta precluso in sede di legittimità.
L'analisi sulla fondatezza della pretesa è preclusa per due ordini di ragioni: per aver errato nell'individuazione del motivo di ricorso e per aver chiesto una nuova valutazione di fatto.
In primis contestare la mancanza di consapevolezza dell'utilità, debitamente motivata dalla Corte d'Appello, richiede una nuova valutazione in fatto che non è stata neanche censurata adducendo l'omesso esame di un fatto decisivo ex art. 360 n. 5 c.p.c..
In secundis, il ricorrente ha prospettato una violazione di diritto, nello specifico dell'art. 2041 c.c., evidenziando come il Comune avesse disposto l'aggiornamento del canone seppur per un solo semestre durante la vigenza del contratto.
Una tale circostanza dovrebbe attestare la consapevolezza dell'utilità da parte del soggetto pubblico ma, nonostante sia stata presentata come una violazione di diritto, essa si attesta come una nuova valutazione del fatto, preclusa in sede di legittimità.
A fronte di tali ragioni, la Corte dichiara il ricorso inammissibile , condannando il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Cass. Civ., Sez. VI, ordinanza n. 17079/2018