Il caso di specie
Un avvocato inviava una lettera raccomandata al difensore della controparte e, per conoscenza, anche a quest'ultima.
La raccomandata in questione aveva ad oggetto delle contestazioni relative ad un conteggio effettuato dal collega poiché ritenute non corrispondenti al tariffario forense, con l'allegazione di un assegno circolare, intestato alla stessa controparte, volto ad estinguere il debito dei propri clienti.
Il Consiglio dell'Ordine degli Avvocati di appartenenza sanzionava il professionista con l'ammonimento.
Nello specifico si riteneva che il difensore con la propria condotta avesse violato gli artt. 6 e 27 del previgente codice deontologico forense.
La comunicazione effettuata anche alla controparte configurava un illecito disciplinare, non rinvenendosi alcuna delle eccezioni previste dal canone I del previgente art. 27.
Il professionista presentava impugnazione ed il Consiglio nazionale forense la respingeva.
L'infruttuosità del gravame, induceva lo stesso avvocato a presentare ricorso al fine di ottenere la cassazione della decisione.
Sulla questione si pronunciano le Sezioni Unite con la sentenza 17534/2018 che ci si appresta a commentare.
Per un corretto inquadramento della tematica e un più esaustivo approfondimento, si ritiene opportuno ripercorre il ragionamento logico giuridico seguito dal Supremo Consesso evidenziando, di volta in volta, le criticità sottese alla sentenza del Consiglio nazionale forense.
La questione inter-temporale
La vicenda così descritta si pone a cavallo tra la vigenza del vecchio codice deontologico forense e l'entrata in vigore del nuovo codice.
Volendo ricostruire gli avvenimenti da un punto di vista temporale, risulta infatti che:
- La missiva dell'avvocato è dell'Aprile 2011;
- La delibera del COA è del Novembre 2014;
- La decisione del CNF è del Novembre 2017.
Nel momento in cui si è pronunciato il Consiglio nazionale forense, il nuovo codice deontologico era già in vigore.
Quest'ultimo infatti è divenuto efficace sessanta giorni dopo la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del 16 Ottobre 2014.
Lo stesso codice è stato modificato una prima volta con decorrenza 2 Luglio 2016 e, da ultimo, con un nuovo intervento vigente dal 12 Giugno 2018.
La cronologia così riportata non è rilevante nel caso di specie.
La giurisprudenza delle Sezioni Unite ha affermato che il nuovo codice deontologico possa essere applicato retroattivamente, ossia anche nei procedimenti disciplinari pendenti al momento della sua entrata in vigore, solo qualora la nuova disciplina risulti essere più favorevole per l'incolpato ex art. 65 Legge 247/2012 (ex multis SU 3023/2015; 13982/2017).
Siffatto principio non ricorre nel caso di specie in quanto tanto il vecchio codice, agli artt. 6 e 27, quanto il nuovo codice, agli artt. 9 e 41, affrontano e risolvono la questione in modo analogo.
L'illecito disciplinare contestato all'avvocato
L'art 6 del codice deontologico previgente (ora art. 9) impone all'avvocato di svolgere la propria attività professionale con lealtà e correttezza.
L'art. 27 del vecchio codice (ora art. 41) prevede il divieto per il legale di mettersi in contatto diretto con la controparte, qualora quest'ultima sia assistita da un collega.
La norma da ultimo citata contempla delle eccezioni a siffatto divieto.
Si prevede che, in casi particolari, ossia per richiedere determinati comportamenti o intimare messe in mora o evitare prescrizioni e decadenze, la corrispondenza può essere inviata direttamente alla controparte ma dovendone pur sempre inviare una copia, per conoscenza, al legale avversario.
Si specifica altresì che costituisce illecito disciplinare la condotta dell'avvocato che accetti di ricevere la controparte, pur sapendo che questa sia assistita da un collega, senza informare e ottenere il relativo consenso da parte di quest'ultimo.
La ratio sottesa alle norme in esame
Le disposizioni di cui agli artt. 6 e 27 sono avvinti da un rapporto di genere a specie.
Il divieto di inviare "direttamente" la corrispondenza alla controparte assistita da un collega, corrisponde ad una speciale applicazione del fondamentale obbligo dell'avvocato di svolgere la propria professione con lealtà, correttezza e probità verso i propri colleghi e nei confronti della controparte.
Agire con lealtà e correttezza corrisponde, infatti, alla ratio sottesa alla previsione in esame.
Emerge così l'erroneità di quanto affermato nella sentenza de CNF, dalla quale si desumerebbe che le norme in questione siano volte a tutelare la riservatezza del mittente e la credibilità del destinatario.
Nel caso di specie, la missiva inviata dall'avvocato al proprio collega e, per conoscenza, anche alla controparte, non contiene alcuna divulgazione a terzi di notizia riservate.
Le eccezioni sottese al divieto
Occorre interrogarsi se le eccezioni contemplate dalla norma abbiano o meno carattere tassativo.
Le Sezioni Unite pervengono ad una diversa conclusione rispetto a quanto sostenuto nella sentenza impugnata.
Secondo i giudici di legittimità appare a tal fine risolutivo considerare l'incipit contenuto nell'art. 27 "soltanto in casi particolari".
Si richiama la stessa giurisprudenza del CNF con cui si è affermato in diverse occasioni che il rinvio generico, a casi particolari, permette di desumere che le ipotesi contemplate abbiano un valore meramente esemplificativo e privo di qualsiasi carattere tassativo.
Vi è di più. Non risulta, neanche implicitamente, che i casi particolari richiamati dalla norma debbano rientrare nelle tipologie di comunicazioni dalla stessa menzionati.
A fronte di quanto sostenuto, si può affermare che il canone I dell'art. 27 consente all'avvocato di scrivere direttamente alla controparte in casi particolari e per richiedere determinati comportamenti, purché una copia sia inviata anche al collega.
Alla stessa conclusione si deve pervenire considerando l'art. 41 del nuovo codice deontologico.
Il diverso tenore letterale, da "soltanto in casi particolari" a "esclusivamente", non comporta alcuna differenza dal momento che il testo complessivo delle norme appare essere di uguale contenuto.
Nel caso di specie l'avvocato ha indirizzato una raccomandata al difensore della controparte e, per conoscenza, anche alla controparte, potendosi già cogliere che la notizia al proprio collega è stata opportunamente adempiuta.
Nella raccomandata si è allegato un assegno circolare volto ad attestare l'avvenuto totale pagamento del debito che i propri clienti avevano con la controparte.
Si è così comunicato un fatto storico che non è collegato a nessun processo pendente tra le parti, con la conseguenza che esso non può non essere considerato come un atto avente natura sostanziale.
In altri termini, l'avvocato ha comunicato alla controparte un fatto significativo, quest'ultimo identificabile nell'avvenuta estinzione del debito, volto ad evitare l'instaurazione di procedure esecutive nei confronti dei propri clienti.
L'invio della lettera oltre che al proprio collega, anche alla controparte, è posto al fine di ottenere una condotta collaborativa quale, appunto, la chiusura dei rapporti pendenti.
La missiva è volta dunque a richiedere un determinato comportamento alla controparte, con una finalità di prevenzione, avendo dato comunicazione anche al collega quale principale destinatario della stessa.
La ricostruzione fattuale permette di desumere che la condotta dell'avvocato non integri l'illecito disciplinare di cui all'art. 27 del codice previgente poiché è sussumibile tra le eccezioni contemplate dalla stessa disposizione.
L'illecito disciplinare nel nuovo codice deontologico
E' importante richiamare alcuni principi generali che le stesse Sezioni Unite hanno ribadito in relazione al nuovo codice deontologico forense.
La disciplina vigente è ispirata al principio della tendenziale tipizzazione degli illeciti e all'espressa indicazione delle sanzioni, senza spingersi al punto di riconoscere il principio di stretta tipicità dell'illecito, quest'ultimo caratterizzante il sistema penale.
In altri termini, il nuovo codice tipizza degli illeciti disciplinari ma senza alcuna pretesa di esaustività, enunciando dei doveri fondamentali cui gli avvocati si devono attenere durante lo svolgimento dell'attività professionale.
Quanto appena sostenuto si evince dall'art. 9 del codice vigente, secondo cui la professione forense deve essere svolta con indipendenza, lealtà, probità, dignità, decoro, diligenza e competenza, tenendo conto del rilievo sociale e della difesa e rispettando i principi della corretta e leale concorrenza.
La disposizione in esame è una norma di chiusura che, con una formulazione ampia e generica, permette di evitare forme di impunità.
L'impossibilità di enunciare e descrivere ogni singola tipologia di illecito disciplinare comporterebbe che tutte le condotte non sussumibili nelle fattispecie tipizzate rimarrebbero impunite.
L'astratta idoneità di ogni condotta, che violi i precetti normativi e deontologici, ad integrare un illecito disciplinare non deve però consentire alcun tipo di automatismo sanzionatorio.
La sanzione da applicarsi deve essere sempre rapportata alle peculiarità del caso concreto ed alle condizioni soggettive dell'incolpato.
Il riconoscimento della responsabilità e l'irrogazione della relativa sanzione può ammettersi solo qualora, all'esito del relativo procedimento, sussistano delle prove idonee e sufficienti.
A contrario quindi, il professionista dovrà essere assolto qualora non sia stata raggiunta la prova certa della sua colpevolezza in ordine all'illecito contestato.
Ulteriore rilievo di non poco conto attiene il principio enunciato dall'art. 21 del codice vigente, secondo il quale, oggetto del procedimento disciplinare, deve essere la condotta complessivamente tenuta dall'avvocato e ciò vale sia per valutare la condotta, sia per individuare la sanzione più adeguata.
La sanzione disciplinare deve così essere individuata tenendo conto: della gravità del fatto, della gravità della colpa, della sussistenza del dolo e della relativa intensità, del comportamento dell'incolpato antecedente e successivo al fatto, delle circostanze soggettive e soggettive in cui esso è avvenuto, dei pregiudizi che sono stati cagionati al proprio cliente, dei precedenti disciplinari, dell'eventuale compromissione dell'immagine della professione forense e della vita professionale dell'avvocato.
Il sindacato delle Sezioni Unite sugli illeciti disciplinari
La valutazione dei predetti elementi, ai fini dell'individuazione della sanzione disciplinare, spetta al solo Ordine Professionale.
Le Sezioni Unite non possono sindacare nel merito le scelte operate dall'organo forense ma possono esprimersi sulla congruità e sulla ragionevolezza della decisione finale in relazione al precetto ex art. 360 n. 3 c.p.c. (violazione o falsa applicazione delle norme di diritto).
Nel caso di specie il ricorrente non ha espressamente contestato la violazione del predetto art. 21 del codice deontologico e ciò dovrebbe precludere un tale pronunciamento da parte dei giudici di legittimità.
Come noto, infatti, l'art. 366 n. 4 c.p.c. prevede che il ricorso debba contenere, a pena di inammissibilità, l'indicazione delle norme di diritto che si assumono violate.
Secondo le Sezioni Unite, tale disposizione deve essere interpretata nel senso che l'indicazione delle norme di diritto è rilevante solo per individuare il contenuto dei motivi per i quali si chiede la cassazione della sentenza.
Ne deriva che, se il contenuto delle censure sia desumibile dalle ragioni esposte dal ricorrente, il profilo sostanziale dell'atto prevale su quello formale e, dunque, l'omessa indicazione delle norme di legge perde rilevanza.
Il principio così enunciato si rinviene nel caso di specie dal momento che il succitato art. 21, relativo al comportamento complessivo tenuto dall'incolpato, corrisponde alla base giuridica per irrogare la sanzione disciplinare e per ciò risulta sindacabile dal Supremo Consesso anche in assenza di esplicito richiamo.
Dalla lettura della sentenza impugnata si contesta all'avvocato l'invio di una raccomandata direttamente alla controparte, peraltro indirizzata anche al collega, senza che si rinvenisse alcuna delle eccezioni di cui all'art. 27 del previgente codice deontologico.
Dalla missiva non risultano apprezzamenti denigratori sull'attività professionale del collega.
Il sentimento di sfiducia dell'avvocato nei confronti del collega è estraneo al capo di incolpazione, questo infatti è emerso in alcune dichiarazioni rese durante lo svolgimento del procedimento disciplinare con la conseguenza che esso si attesta quale manifestazione del diritto di difesa e non può essere valutato nel comportamento complessivo da questi tenuto.
La decisione del caso di specie
Volendo riassumere le considerazioni svolte dalle Sezioni Unite con la sentenza di cui si discute, la questione è stata risolta fornendo una corretta interpretazione degli artt. 6, 21 e 27 del codice deontologico previgente.
Le eccezioni al divieto di inviare direttamente la corrispondenza alla controparte non hanno carattere tassativo ma meramente esemplificativo.
Si devono per questo ammettere tutte le situazioni in cui il collega sia stato informato di tali comunicazioni e non sussistano elementi che comprovino una scorrettezza nell'operato dell'avvocato o nel contenuto della missiva.
Rispettate le suindicate condizioni, ben si può annoverare l'invio di una raccomandata volta ad informare la controparte dell'avvenuta estinzione di un debito.
La raccomandata ha ad oggetto un fatto significativo con funzione precauzionale perché è volta ad evitare l'instaurazione di procedure esecutive.
La finalità della missiva è dunque quella di sollecitare una condotta collaborativa della controparte, integrando così il presupposto del "determinato comportamento" richiesto dalla norma deontologica per esimere il professionista dall'aver commesso l'illecito disciplinare (art. 27, oggi art. 41).
Sussistendo così le condizioni richieste, e non riscontrandosi elementi che denotino una scarsa lealtà e correttezza, la condotta non risulta aver violato neanche la norma di chiusura, ossia l'art. 9 del codice vigente (artt. 5 e 6 del vecchio codice).
Il movente che avrebbe indotto l'avvocato ad inviare la corrispondenza anche alla controparte, ossia la sfiducia nutrita nei confronti del proprio collega, afferisce dichiarazioni che si attestano quali esternazioni del diritto di difesa e dunque non possono essere considerate nel comportamento complessivo dell'incolpato ex art. 21 del predetto codice.
La sentenza impugnata non risulta così essere conforme ai principi succitati e viene cassata con rinvio al Consiglio nazionale forense che, in diversa composizione, dovrà esaminare nuovamente il ricorso presentato dal professionista.
Sez. Un. Civ., sentenza 17534/2018