Pare che alla base di tali provvedimenti ci siano i fatti seguenti.
La licenza che autorizza l'interessato a detenere armi da collezione (appartenute al padre) è del 2003; egli viene denunciato alla Procura della Repubblica per presunti reati ex art. 612 c.p. (minaccia), 594 c.p.(ingiuria), 392 c.p. (esercizio arbitrario delle proprie ragioni), 393 c.p. (esercizio arbitrario delle proprie ragioni con uso di violenza alle persone), 614 c.p. (violazione di domicilio), 388 c.p. (mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice).
Tuttavia il procedimento penale si chiude con l'archiviazione per assoluta infondatezza della notizia criminis, per tutte le ipotesi di reato.
La linea difensiva dell'interessato
Sostiene che è mancata un'autonoma istruttoria da parte dell'amministrazione e che i procedimenti penali a suo carico sono stati sfruttati ad arte dalla moglie.
In effetti, dal dossier emerge che questi sono stati strumentalmente proposti nell'ambito della separazione dalla coniuge, sicuramente per avvalorare la propria tesi difensiva.
La soluzione data dal Collegio
E' favorevole al ricorrente.
Il lungo preambolo decisorio del Tar dice in sintesi che, pur essendo vero che il nostro Ordinamento è caratterizzato da un rigoroso sistema di controlli tendenti a ridurre al minimo il possesso e la circolazione delle armi e, poi, il pericolo di abuso può essere notato in tutti i casi in cui emergano anche semplici sospetti o indizi negativi che inducano a dubitare dell'uso delle armi in completa sicurezza, tuttavia nel caso esaminato si ritiene che l'Amministrazione non abbia operato legittimamente, in quanto ha basato il provvedimento su presupposti erronei (utilizzo strumentale del dossier penale da parte della coniuge in sede di separazione, pur essendo il procedimento sfociato nell'archiviazione).
L'atto impugnato viene quindi annullato e il Ministero dell'Interno condannato a pagare le spese di lite.
La sentenza non è stata, ad oggi, appellata.
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