La vicenda
Il conducente di un motociclo conveniva in giudizio il Comune di Palermo al fine di ottenere il risarcimento dei danni ex art. 2051 c.c. per essere caduto dal proprio mezzo a causa di una buca presente sul manto stradale, non segnalata e di modeste dimensioni.
Il Comune si costitutiva in giudizio sostenendo l'infondatezza della domanda attorea e, per essere manlevato, chiedeva di chiamare in giudizio l'azienda municipale addetta alla manutenzione delle strade.
Quest'ultima si costituiva e insisteva anch'essa per il rigetto della domanda di parte attrice.
Il Tribunale accertava e dichiarava la responsabilità solidale del Comune e dell'azienda municipale ma condannava al risarcimento dei danni il solo ente comunale, rigettando così la domanda di rivalsa formulata da quest'ultimo.
Parte soccombente proponeva appello avverso suddetta sentenza, lamentando: l'erronea applicazione dell'art. 2051 c.c.; la mancata dimostrazione del nesso causale tra la presenza della buca e la caduta del danneggiato; la mancata considerazione della velocità di marcia tenuta dal conducente; e, da ultimo, l'aver escluso la possibilità di rivalersi sull'azienda addetta alla manutenzione delle strade.
Il giudice di secondo grado accoglieva solo parzialmente l'appello principale.
Nello specifico, si confermava quanto statuito dal Tribunale relativamente all'accertata responsabilità da cose in custodia ma si riconosceva un concorso colposo del danneggiato, pari al 50%, avendo questi tenuto una velocità non adeguata allo stato dei luoghi.
Si stabiliva altresì che l'azienda municipale avrebbe dovuto tenere indenne l'ente comunale, una volta terminata la procedura di amministrazione controllata cui era sottoposta.
La sottoposizione di un ente ad una tale procedura nelle more di un giudizio non può infatti precludere la relativa prosecuzione così come lo stesso diritto di rivalsa. Quest'ultimo trova fondamento nella delibera con cui il Comune ha affidato alla predetta azienda la vigilanza e la manutenzione delle vie della città.
Il danneggiato, attore in primo grado e appellato in secondo grado, promuoveva ricorso in Cassazione.
Il motivo di ricorso in Cassazione
Il ricorrente formula un solo motivo di ricorso.
Questi lamenta violazione e falsa applicazione dell'art. 1227 c.c. e, in particolare, la manifesta illogicità della sentenza nella parte in cui determina la percentuale del danno per concorso colposo in assenza di sicuri elementi di giudizio.
La pronuncia dei giudici di legittimità
La Corte di Cassazione con la pronuncia in commento, dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento integrale delle spese di giudizio.
Si ribadisce l'assunto secondo il quale il giudizio di legittimità non debba e non possa costituire un terzo grado di giudizio.
La valutazione delle prove è un'attività riservata al giudice di merito e non è sindacabile in sede di legittimità se non per il solo profilo della logicità e coerenza della motivazione.
Quanto affermato comporta che la Corte di Cassazione non possa svolgere una diversa valutazione dei fatti di causa o porre a fondamento della propria decisione differenti risultanze probatorie.
A prescindere da tali rilievi si osserva come il ricorrente, con la formulazione dell'unico motivo di ricorso, non abbia colto la ratio decidendi sottesa alla pronuncia di merito.
La Corte d'Appello ha infatti escluso il nesso causale tra la condotta tenuta dal danneggiato e l'evento illecito confermando, sotto questo aspetto, quanto statuito dal giudice di prime cure.
Nel tentativo di esplicitare e comprendere una tale affermazione, è opportuno svolgere qualche considerazione sul nesso causale.
Come noto, in ambito civilistico, la causalità deve essere considerata secondo un duplice profilo: materiale e giuridica.
La causalità materiale afferisce il nesso sussistente tra la condotta e l'evento illecito; diversamente, la causalità giuridica, attiene la correlazione tra l'evento illecito e i danni conseguenza che siano stati cagionati.
Quanto appena sostenuto trova conferma nella stessa formulazione dell'art. 1227 c.c.
Il primo comma della succitata disposizione si riferisce alla causalità materiale mentre, il comma successivo, attiene la causalità giuridica.
Nello specifico il secondo comma dell'art. 1227 c.c. prevede che il risarcimento del danno debba essere escluso o attenuato relativamente a quei danni che lo stesso danneggiato avrebbe potuto evitare impiegando l'ordinaria diligenza.
La disposizione corrisponde ad un'applicazione specifica del dovere di buona fede e di correttezza ex art. 2 Cost. ed impone al creditore di attivarsi, entro un sacrificio apprezzabile, al fine di evitare la produzione di danni ulteriori o l'aggravamento degli stessi.
Rapportando quanto esplicitato al caso di specie, escludere che la condotta del danneggiato abbia cagionato il fatto illecito non equivale a sostenere che la stessa condotta non abbia influito sui relativi danni arrecati.
La responsabilità da cose in custodia
Il caso di cui si è occupata la Corte di Cassazione, le ha permesso di richiamare e ribadire il prevalente e più attuale orientamento giurisprudenziale delineatosi in materia.
L'art. 2051 c.c. disciplina la responsabilità da cose in custodia.
Si tratta di un modello di responsabilità derogatorio rispetto quanto previsto dall'archetipo dell'illecito aquiliano ex art. 2043 c.c.
Se un orientamento minoritario ricostruisce la norma come forma di responsabilità per colpa presunta, l'orientamento prevalente la qualifica come forma di responsabilità oggettiva.
Volendo esplicitare questo secondo indirizzo giurisprudenziale, la responsabilità di cui si discute presuppone la sussistenza di un rapporto di custodia e una relazione di fatto esistente tra un soggetto e la cosa medesima onde per cui questi ha il potere-dovere di controllarla, di eliminare le situazioni di pericolo ed escludere che terzi possano venire in contatto con la cosa stessa.
Secondo l'opinione prevalente, il requisito della custodia non richiede l'esistenza di un obbligo giuridico ma è sufficiente che vi sia un semplice stato di fatto tra il soggetto e il bene.
La responsabilità sussiste qualora il danno sia stato cagionato dalla cosa in custodia, assumendo così esclusiva importanza la derivazione causale del danno dalla cosa.
Si prescinde così dal profilo soggettivo, non essendo necessario verificare se il custode abbia esercitato i propri poteri di signoria e di controllo con la dovuta diligenza.
Tutto ciò comporta che il danneggiato ha solamente l'onere di provare il nesso causale sussistente tra la cosa ed il danno.
Di converso, il presunto danneggiante potrà essere esonerato dalla relativa responsabilità qualora dimostri che il danno non sia stato causato dalla cosa ma dal caso fortuito.
La prova liberatoria può consistere in fatti naturali e in fatti posti in essere da terzi o dallo stesso danneggiato che siano idonei ad elidere il nesso causale, escludendolo.
Cass. civ., Sez. VI, ordinanza 225146/2018