di Lucia Izzo - Nei collegi arbitrarli composti da soli avvocati, l'onorario spettante agli arbitri va liquidato (a partire dal 1° aprile 1995) in base alla tariffa professionale, senza che il Presidente del Tribunale possa procedere alla liquidazione ricorrendo a criteri equitativi.
Una previsione che si giustifica alla luce dei criteri stabiliti dal D.M. n. 585/1994 e che, invece, non trova applicazione qualora i collegi arbitrali siano a composizione "mista" e nei quali, dunque, gli avvocati non rappresentino la totalità del collegio.
Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, seconda sezione civile, nella sentenza n. 26523/2018 (qui sotto allegata), pronunciandosi sul ricorso di alcuni professionisti, tra cui alcuni avvocati, a cui il Presidente del Tribunale aveva liquidato un compenso quali componenti del collegio arbitrale chiamato a dirimere una controversia definita con l'emissione di lodo.
Tuttavia, i professionisti proponevano reclamo contestando l'ammontare della somma liquidata: impugnazione respinta dalla Corte territoriale trattandosi di somma rispondente ai criteri di equità e conforme alla dignità delle professioni svolte dagli arbitri, non dovendosi applicare le tariffe forensi e non potendo essere riconosciute le cd. spese generali.
In Cassazione, i ricorrenti lamentano, tra l'altro, che il giudice a quo abbia errato nel dichiarare inapplicabili le tabelle di cui al D.M. 127/2004, trattandosi di collegio arbitrale misto e nel ritenere, al contrario, applicabile il criterio equitativo.
Arbitrato: compensi liquidati in base alla tariffa forense per collegi di soli avvocati
Gli Ermellini rammentano che, in tema di arbitrato, a partire dall'1 aprile 1995, l'onorario spettante agli arbitri, che siano anche avvocati, deve essere liquidato in base alla tariffa professionale, senza possibilità per il presidente del Tribunale, che procede alla sua liquidazione, di fare ricorso a criteri equitativi.
Una conclusione avvalorata dai criteri stabiliti dal D.M. n. 585/1994, con il quale è stata approvata la delibera del Consiglio Nazionale Forense del 12 giugno 1993, in materia di determinazione degli onorari, dei diritti e delle indennità spettanti agli avvocati, a partire dall'1 aprile 1995, per le prestazioni giudiziali, in materia civile e penale, e stragiudiziali.
Il citato D.M. prevede al punto 9) della tabella relativa alla attività stragiudiziale gli onorari spettanti al collegio composto da avvocati, indicandone il minimo e il massimo secondo il valore della controversia.
Collegi arbitrali "misti": nel liquidare i compensi il giudice non è vincolato a parametri normativi
Tuttavia, tale disposizione, contenuta nella disciplina dei compensi per l'attività forense anche stragiudiziale e pertinente ai soli soggetti iscritti al relativo albo e solo nei loro confronti vincolante, non può trovare applicazione con riguardo ai collegi arbitrali a composizione mista, nei quali gli avvocati non rappresentino la totalità del collegio.
In quest'ultima ipotesi, che è quella del caso di specie, rimane applicabile il disposto dell'art. 814, secondo comma, c.p.c. in base al quale il Presidente del Tribunale non è vincolato ad alcun parametro normativo nell'esercizio dei suoi poteri discrezionali "in subiecta materia".
Questi sarà dunque libero di scegliere, secondo il suo prudente apprezzamento, i criteri equitativi di valutazione che ritenga più adeguati all'oggetto ed al valore della controversia, nonché alla natura ed all'importanza dei compiti attribuiti agli arbitri, anche attraverso il ricorso, ma solo come utile parametro di riferimento, alle tariffe di alcune categorie professionali.
Pertanto, nel caso in esame, correttamente la Corte distrettuale ha ritenuto di applicare il criterio equitativo e, a sua volta, deve ritenersi corretto è anche il quantum della liquidazione effettuata dalla Corte distrettuale.
Infatti, come affermato dalle Sezioni Unite (sent. n. 25045/2016), nell'ipotesi in cui la determinazione del compenso agli arbitri, in ragione della composizione mista del collegio arbitrale, avvenga in via equitativa utilizzandosi i parametri di cui al d.m. n. 127/2004 (applicabile "ratione temporis"), anche il valore della controversia deve essere determinato alla stregua dei criteri generali previsti dall'art. 6 del d.m. citato.
Cioè, si legge nel provvedimento, non sulla base di quanto richiesto dalla parte vincitrice, ma di quanto liquidatole con la decisione, non essendo in tal caso applicabile l'art. 12 c.p.c., atteso che le tabelle di liquidazione sono strettamente collegate ai criteri generali di liquidazione dalle stesse previste, onde non è possibile applicare in via equitativa le une, prescindendo dagli altri.
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