di Lucia Izzo - La richiesta da parte della vittima dell'uso del preservativo non costituisce di per sé consenso putativo al rapporto sessuale, potendo rappresentare solo il tentativo della vittima di elidere o ridurre le conseguenze negative dell'atto non voluto.
È l'interpretazione fornita dalla Corte di Cassazione, terza sezione penale, nella sentenza n. 727/2019 (qui sotto allegata) nel respingere il ricorso di un uomo condannato per violenza sessuale.
- Il caso
- L'abuso delle condizioni di inferiorità psicofisica
- È violenza sessuale anche se la vittima ha richiesto il preservativo
Il caso
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Il reato era stato commesso nei confronti di una quattordicenne che l'imputato aveva conosciuto online dichiarandole di essere un poliziotto. La violenza si era poi consumata nell'auto di lui, in un terreno di sua proprietà in aperta campagna e nonostante la ragazza avesse fermamente opposto un rifiuto al rapporto sessuale, non rispettato dall'uomo.
In Cassazione, l'imputato cerca di scardinare l'impianto argomentativo evidenziando il pregresso rapporto di conoscenza e frequentazione con la vittima, finalizzato all'inizio di una relazione sentimentale, e sostenendo che la stessa fosse matura e consenziente al rapporto senza che lui avesse abusato della sua presunta incapacità di resistenza per indurla a compiere atti sessuali.
Anzi, nel dettaglio, l'uomo denuncia che il giudice non avrebbe adeguatamente valutato la circostanza che la ragazza lo avesse invitato a utilizzare il preservativo, dalla quale egli avrebbe tratto la ragionevole convinzione di agire con il consenso della ragazza.
In realtà, all'esito dell'istruttoria e dell'audizione della vittima, i giudici di merito evidenziavano come la spoliazione degli indumenti era avvenuta con lucida e deliberata azione con la quale l'imputato aveva superato progressivamente i reiterati dinieghi della ragazza, resi in un clima di comprensibile intimità, ma pur sempre esplicitati in modo circostanziato e fermo.
L'imputato aveva soggiogato la persona offesa, contando sull'evidente differenza di età e maturità, capacità di determinazione ed esperienza, sino a indurla ad arrendersi alla propria iniziativa. Avendo perso il controllo della situazione, la vittima, di fronte all'atteggiamento risoluto ed irreversibile dell'uomo, si era limitata a soggiacere chiedendo l'uso del preservativo.
L'abuso delle condizioni di inferiorità psicofisica
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Il Collegio ritiene che la motivazione resa dai Giudici di merito sull'induzione all'atto sessuale con abuso delle condizioni d'inferiorità psicofisica della vittima al momento del fatto sia ampia, accurata e immune dai vizi censurati: in tali condizioni di inferiorità rientrano anche quelle che, prescindendo da patologie mentali, siano tali da determinare una posizione particolarmente vulnerabile della vittima.
In particolare, la condizione di inferiorità psichica richiesta dall'articolo 609-bis, secondo comma, n. 1, del codice penale, si verifica nei casi in cui il soggetto passivo versi in una condizione, genetica o sopraggiunta, permanente o transitoria, di incapacità, totale o parziale, di resistere all'altrui opera di persuasione, condizione che non permette di esprimere un valido consenso alla prestazione sessuale.
Oltre alla verifica dell'induzione con abuso delle condizioni d'inferiorità della vittima, è altresì necessario che il giudice apprezzi l'elemento psicologico dell'agente di consapevolezza di tale stato e di volontà del relativo approfittamento, ottenendo un consenso che, in una situazione di «normalità», gli sarebbe stato negato.
Nel caso di merito, i giudici hanno verificato la sussistenza di tutte le condizioni all'uopo necessarie_ non solo hanno valorizzato la notevole differenza d'età (trent'anni l'uomo, quattordici la ragazza), ma anche l'inganno sull'età e sulla professione esercitata, l'inesperienza e immaturità della ragazza, la ripetuta insistenza nel cercare il rapporto sessuale, pur a fronte delle resistenze della persona offesa, il contesto creato per raggiungere lo scopo (auto condotta in zona appartata e coazione fisica della ragazza che era rimasta impietrita).
In questo contesto, anche un eventuale consenso risulterebbe viziato perché strumentalizzato dall'induzione.
È violenza sessuale anche se la vittima ha richiesto il preservativo
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Neppure, inoltre, può avere fondamento la tesi difensiva del consenso putativo desumibile dalla richiesta dell'uso del preservativo, avendo ben spiegato il senso dell'invito da parte della ragazza che aveva pensato di elidere o ridurre le conseguenze negative dell'atto non voluto.
Peraltro, la ragazza ha raccontato di aver ripetutamente espresso il dissenso al rapporto, di aver cercato di sottrarvisi, ottenendone il rifiuto dell'uomo perché era arrivato il momento culminante per la soddisfazione della sua cupidigia, e quindi di essere rimasta pietrificata alla consumazione dell'atto della cui portata non aveva avuto piena consapevolezza come dimostrato anche nel racconto al pronto soccorso.
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