di Luca Passarini - La Corte costituzionale si è pronunciata sull'ammissibilità del conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato, sollevato da trentasette senatori che hanno lamentato la violazione delle proprie prerogative costituzionali, nel corso dell'approvazione del Disegno di legge di bilancio 2019, poi votato dal Parlamento e promulgato dal Presidente della Repubblica lo scorso 30 dicembre. Il procedimento era nominato: ricorso per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato promosso dal senatore Andrea Marcucci in proprio e quale capogruppo del gruppo parlamentare del Partito Democratico presso il Senato della Repubblica, nonché da altri 36 senatori.
Le violazioni denunciate
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Come si legge nella nota diramata dalla stessa Corte costituzionale, il ricorso denuncia la grave compressione dei tempi di discussione del Ddl, che avrebbe svuotato di significato l'esame della Commissione Bilancio e impedito ai singoli senatori di partecipare consapevolmente alla discussione e alla votazione. Nel riconoscere la grave violazione la Corte ha anche definito la legittimazione dei singoli parlamentari a sollevare conflitto di attribuzioni dinanzi allo stesso organo costituzionale di garanzia, nel caso di gravi e manifeste violazioni delle prerogative che la Costituzione attribuisce loro; ponendo la parola fine alla discussione sulla legittimazione o meno degli stessi. La denuncia della minoranza parlamentare si sofferma innanzitutto sulla presentazione da parte del Governo del testo della manovra di bilancio in forma di maxi-emendamento, noncurante delle scadenze previste dalla legislazione vigente in attuazione degli articoli 81, 97, primo comma, e 72, comma quarto, della Costituzione.
Le richieste della minoranza
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Nello specifico la denuncia chiedeva la dichiarazione di non spettanza al Governo, al Presidente della V Commissione Bilancio del Senato della Repubblica, alla Conferenza dei Capigruppo del Senato della Repubblica, al Presidente del Senato della Repubblica, all'Assemblea del Senato della Repubblica degli atti e comportamenti relativi all'approvazione del disegno di legge di bilancio nell'iter costituzionalmente previsto, come svoltosi presso il Senato della Repubblica nel dicembre scorso. La parte centrale del ricorso è rivolta all'organizzazione e ai tempi dei lavori del Senato e alle concrete modalità in cui questi si sono svolti, che, secondo i ricorrenti, avrebbero precluso l'acquisizione di un'adeguata conoscenza dei contenuti normativi, di formarsi un'opinione su di essi e di discuterli, anche al fine di proporre emendamenti o comunque di esprimere un voto consapevolmente favorevole o contrario ai sensi dell'articolo 72, primo comma, della Costituzione. I ricorrenti denunciano la lesione della sfera di attribuzioni costituzionali spettanti ai singoli membri del Senato della Repubblica e ai gruppi parlamentari e in particolare alle minoranze parlamentari con riferimento alla loro partecipazione al procedimento legislativo, evocando gli articoli 72, primo comma, e 67 della Costituzione nonché il principio di leale collaborazione tra poteri dello Stato.
La scelta della Corte
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Il ricorso, nonostante la legittimazione dei soggetti, è stato però dichiarato inammissibile dalla Corte costituzionale che non ha individuato nelle violazioni denunciate quella gravità manifesta che potrebbe far attivare il suo intervento, riconoscendo nello specifico che la contrazione dei lavori per l'approvazione del bilancio 2019 è stata determinata da un insieme di fattori derivanti sia da specifiche esigenze di contesto sia da consolidate prassi parlamentari ultradecennali sia da nuove regole procedimentali. Assicurando però un futuro intervento, laddove la normale dialettica parlamentare non venisse ristabilita.
Studente di Giurisprudenza dell'Università di Bologna
lucapassarini19@gmail.com
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