La Suprema Corte torna sulla valutazione dei limiti degli spazi carcerari in relazione ai principi della convenzione Edu

di Alessandro Simone Favosi - Le condizioni delle carceri italiane sono diventate banco di prova per la criminologia, la sociologia e la politica da ormai molti anni. Dalla famigerata sentenza Torreggiani (adottata l'8 gennaio 2013) l'articolo 3 della CEDU è diventato il punto di riferimento principale per poter interpretare al meglio le condizioni di vita del reo sottoposto a reclusione.

La Corte Suprema, con sentenza datata 10 gennaio 2019 n. 1562 (sotto allegata), ha avuto modo, nuovamente, di tornare in merito alla questione.

Dunque: quali sono i limiti per ritenere una cella come uno spazio di vita inumano e degradante?


La vicenda

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La Corte di Cassazione prende in esame il caso di richiesta di consegna alle autorità giudiziarie rumene nei confronti del P.S.

La Corte di appello di Roma respingeva la richiesta in questione, adducendo come motivazione principale il mancato rispetto dello spazio minimo in tema di mandato di arresto europeo (considerando la destinazione in regime "chiuso" della struttura penitenziaria della nazionalità di appartenenza). Nella specie, quest'ultimo, viene calcolato in tre metri quadri, tenendo in considerazione la possibilità del detenuto di potersi muovere liberamente tra i mobili.

La Suprema Corte giudica fondato il ricorso proposto dal Procuratore generale avverso la sentenza della Corte d'appello romana.

L'articolo 3 della CEDU, tre metri non sono un criterio "rigido"

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La Corte sostiene come il requisito spaziale di tre metri quadri non debba essere visto come un criterio rigido al quale necessariamente conformarsi. L'articolo 3 della CEDU, nonostante sia stato interpretato dalla Corte di Strasburgo proprio a favore dell'opportunità di riconoscere uno spazio minimo individuale, non ritiene quest'ultimo come criterio definitivo per accertare la lesione dei diritti del detenuto.

In mancanza di un tale spazio verrà a formarsi una presunzione di trattamento inumano o degradante, che sarà confutabile tramite criteri altrettanto validi in grado di compensare la sua mancanza, come, ad esempio: «il grado di libertà di circolazione del ristretto e l'offerta di attività all'esterno della cella nonché le buone condizioni complessive dell'istituto e l'assenza di altri aspetti negativi del trattamento in rapporto a condizioni igieniche e servizi forniti».

Nel caso in esame, secondo la VI Sezione, la Corte di appello non ha fatto un buon uso delle linee guida sopra citate.

La giurisprudenza della Corte di Strasburgo

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Uno dei casi più celebri in tal senso (riportato anche dalla sentenza 1562) è il "Mursic contro Croazia", ricorso n. 7334/13 a cura della Grande Camera, datato 20 ottobre 2016. Il caso riguarda il trasferimento e la permanenza del ricorrente nel carcere della contea di Bjelovar nel quale era stato detenuto, secondo la ricostruzione della difesa, in condizioni inumane e degradanti in celle sovraffollate e con uno spazio personale inferiore ai tre metri quadri.

La sentenza prende in considerazione i principi fondamentali enunciati sia dall'articolo 3 della Convenzione Europea, sia dai principi minimali identificati dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti (CPT), che in data 2015 ha dichiarato la sua posizione in merito.

Da quanto emerge, la possibilità di rintracciare un concreto trattamento punibile secondo l'articolo 3 trova riscontro in un complesso di valutazioni che lasciano un grande margine decisionale al giudice, in quanto dovrà vagliare tutti i requisiti possibili per provare che le sofferenze patite dal reo hanno raggiunto la soglia "dell'inumano e degradante". Esse saranno date da una somma di fattori positivi, come il trascorrere una parte considerevole della giornata fuori dalle celle (laboratori, corsi o altre attività) e fattori negativi di conferma del precario stato della qualità della vita. (Numero di letti insufficienti, insalubrità o infestazioni parassitarie).

In definitiva, basti citare il punto 103 della sentenza: «La Corte ha sottolineato in più occasioni che ai sensi dell'articolo 3 non può determinare una volta per tutte un numero specifico di metri quadri da attribuire a un detenuto per rispettare la Convenzione. Ritiene infatti che molti altri fattori, come la durata della privazione della libertà, le possibilità di esercizio all'aperto o lo stato di salute fisica e mentale del detenuto, abbiano un ruolo importante nel valutare le condizioni di detenzione rispetto alle garanzie dell'articolo 3».

Scarica pdf sentenza Cassazione n. 1562/2019

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