Avv. Paolo Accoti - Chiunque, comunicando con più persone, offende l'altrui reputazione, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a 1.032 euro. Se l'offesa consiste nell'attribuzione di un fatto determinato, la pena è della reclusione fino a due anni, ovvero della multa fino a 2.065 euro. Se l'offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a 516 euro (art. 595 Cp).
La giurisprudenza, già da tempo, ha considerato il profilo Facebook quale <<luogo aperto al pubblico>>, in considerazione del fatto che l'accesso risulta consentito a tutti gli utilizzatori del predetto social network (Cass. 37596/2014).
Ciò posto, proprio in considerazione della ampia pubblica diffusione, l'utilizzo improprio di tale strumento spesso porta alla contestazione di alcuni reati che hanno come presupposto proprio la comunicazione con più persone e, pertanto, la divulgazione rivolta a più soggetti.
La casistica è ampia ed eterogenea, si passa dalle molestie (art. 660 Cp), agli atti persecutori cd. stalking (art. 612 bis Cp), dalla violazione del diritto d'autore, al licenziamento fino all'addebito della separazione dei coniugi.
Senza dimenticare l'ipotesi più frequente, vale a dire quella oggi in commento della diffamazione aggravata, ex art. 595 Cp.
La vicenda giudiziaria
La Corte d'Appello di Messina conferma la sentenza di condanna per diffamazione
aggravata a carico dell'utente del noto social network, per avere lo stesso offeso la reputazione del titolare di un esercizio commerciale di gastronomica, mediante la pubblicazione su una pagina Facebook di un commento negativo nel quale metteva anche in discussione la buona fede del commerciante riferendo che, per la merce acquistata (<<750 grammi di ravioli>>) nel negozio dello stesso, <<neanche il peso dichiarato ci ha molto convinto>>.Peraltro l'imputato aveva anche pubblicato su detto social network un finto volantino, riferibile alla predetta attività commerciale, con il quale, in modo satirico, fingeva la vendita in promozione di pasta a prezzi smisurati, che aveva portato ad una accesa polemica con un altro utente, nel corso della quale veniva scritte frasi diffamatorie nei confronti del titolare dell'esercizio commerciale.
Proponeva ricorso per cassazione il difensore dell'imputato, eccependo, tra le altre cose, La violazione dell'art. 51 Cp e, in particolare, la mancata applicazione della scriminante ivi prevista del diritto di critica.
La decisione della Corte di Cassazione
La stessa (V Sezione penale), con la sentenza n. 3148, depositata in data 23 Gennaio 2019, opera un breve excursus sulla scriminante del diritto di critica, affermando come lo stesso <<si concretizza in un giudizio valutativo che postula l'esistenza del fatto assunto ad oggetto o spunto del discorso critico ed una forma espositiva non ingiustificatamente sovrabbondante rispetto al concetto da esprimere, e, conseguentemente, esclude la punibilità di coloriture ed iperboli, toni aspri o polemici, linguaggio figurato o gergale, purché tali modalità espressive siano proporzionate e funzionali all'opinione o alla protesta, in considerazione degli interessi e dei valori che si ritengono compromessi (Sez. 1, n. 36045 del 13/06/2014).>>.
Pertanto, <<nella valutazione del requisito della continenza, necessario ai fini del legittimo esercizio del diritto di critica, si deve tenere conto del complessivo contesto dialettico in cui si realizza la condotta e verificare se i toni utilizzati dall'agente, pur aspri e forti, non siano gravemente infamanti e gratuiti, ma siano, invece, comunque pertinenti al tema in discussione (Sez. 5, n.4853 del 18/11/2016).>>.
Ciò posto, la Suprema Corte ritiene erronea la decisione della Corte d'Appello per avere la stessa immotivatamente enfatizzato l'espressione <<truffatore>>, senza valutare il contesto nel quale le frasi sono state inserite, in particolare, quella per cui la critica era rivolta all'esercizio commerciale e non al suo gestore.
A tal proposito, infatti, ricorda che <<è vero che l'esercizio del diritto di critica trova un limite immanente nel rispetto della dignità altrui, non potendo lo stesso costituire mera occasione per gratuiti attacchi alla persona ed arbitrarie aggressioni al suo patrimonio morale (tra le altre Sez. 5, n. 4938 del 28/10/2010). Tuttavia, in tale ottica, non è consentito al giudice di merito sintetizzare un discorso assegnandogli il significato di un attacco alla persona ("truffatore") che lo stesso non ha, visto che nel post viene criticata l'attività di un esercizio commerciale e non l'etica del privato, in quanto uomo, che la gestisce.>>.
In definitiva, la stessa conclude affermando come <<gli elementi a disposizione consentono alla Corte di cassazione di riconoscere l'operatività della scriminante invocata dal ricorrente. Le espressioni incriminate, inserite nel contesto in cui si sono sviluppate, concernono la critica ai prezzi praticati dalla gastronomia "…omissis…" e al dubbio manifestato circa la rispondenza, in una specifica occasione, tra peso effettivo della merce e prezzo applicato. … Il linguaggio, figurato e gergale, nonché i toni, aspri e polemici, utilizzati dall'agente sono funzionali alla critica perseguita, senza trasmodare nella immotivata aggressione ad hominem. Il requisito della continenza non può ritenersi superato per il solo fatto dell'utilizzo di termini che, pur avendo accezioni indubitabilmente offensive, hanno però anche significati di mero giudizio critico negativo del quale occorre tenere conto anche alla luce del contesto complessivo e del profilo soggettivo del dichiarante (Sez. 5 n. 42570 del 20/06/0218, non massimata).>>.
La sentenza, quindi, viene annullata senza rinvio perché il fatto non costituisce reato.
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