Avv. Paolo Accoti - La necessità di indossare particolari indumenti prima dell'effettivo svolgimento dell'attività lavorativa riguarda un gran numero di lavoratori che, per le più svariate motivazioni, per le mansioni a cui devono concretamente attendere, sono obbligati ad indossare determinati capi di abbigliamento.
Tale bisogno, sostanzialmente, può sorgere per tre ordini di ragioni, quella attinente ad esigenze di sicurezza e igiene pubblica, quella relativa a necessità personali come, ad esempio, preservare gli indumenti "borghesi" che altrimenti potrebbero rovinarsi o sporcarsi durante l'attività lavorativa e quella afferente la necessità aziendale di identificare i propri dipendenti mediante l'utilizzo di particolari "uniformi", si pensi, ad esempio, al personale di bordo delle compagnie aeree.
Tempo "tuta" va retribuito?
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Partendo da questo presupposto, il quesito che sorge è quello relativo alla retribuibilità o meno del tempo necessario alla vestizione e svestizione, prima dell'espletamento dell'attività lavorativa vera e propria.
A tal riguardo occorre tener presente che, ai sensi dell'art. 1, comma 2, lettera a) del D. Lgs. 8 Aprile 2003, n. 66, ai fini dell'individuazione dell'orario di lavoro è necessario che il lavoratore sia a <<disposizione del datore di lavoro e nell'esercizio della sua attività o delle sue funzioni>>.
In tale ottica, la necessità del lavoratore di indossare certi indumenti non fa venir meno la discrezionalità dello stesso nel decidere quando e dove provvedere alla sua vestizione.
Ed è questo il discrimine tra la retribuibilità o meno del tempo necessario alla vestizione e svestizione.
In altri termini, l'assenza di discrezionalità del lavoratore comporta che lo stesso, in tali circostanze, sia a <<disposizione del datore di lavoro>>, evenienza che, agli effetti della richiamata disciplina, impone la remunerazione del tempo occorre per tali incombenze.
Ecco che allora, se per esigenze aziendali ovvero per necessità di carattere pubblico, il lavoratore sia obbligato a vestirsi e svestirsi in un determinato tempo (appena prima dell'inizio dell'attività lavorativa) e luogo (lo spogliatoio aziendale), lo stesso deve essere retribuito anche durante tali occupazioni.
In buona sostanza, se l'esigenza di cambiarsi d'abito nasce da un bisogno personale del lavoratore, si pensi all'operaio edile che per non insozzare gli abiti civili indossa una tuta da lavoro, questi può tranquillamente cambiarsi d'abito presso la propria abitazione e, pertanto, il tempo dedicato a tale attività non potrà essere remunerato.
Viceversa, tale tempo dovrà essere considerato lavoro effettivo e, quindi, retribuito, qualora, come detto, sia lo stesso datore di lavoro a stabilire luogo e tempo della vestizione ovvero quando indossare la divisa risulta obbligatorio ai fini dell'espletamento dell'attività lavorativa.
I principi giurisprudenziali
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Con riferimento al cd. tempo tuta, la giurisprudenza ha già da tempo evidenziato come <<la "eterodeterminazione del tempo e del luogo ove indossare la divisa o gli indumenti necessari per la prestazione lavorativa, che fa rientrare il tempo necessario per la vestizione e svestizione nell'ambito del tempo di lavoro, può derivare non solo dall'esplicita disciplina d'impresa ma anche risultare implicitamente dalla natura degli indumenti da indossare o dalla specifica funzione che essi devono assolvere nello svolgimento della prestazione", sicché possono "determinare un obbligo di indossare la divisa sul luogo di lavoro ragioni d'igiene imposte dalla prestazione da svolgere ed anche la qualità degli indumenti, quando essi siano diversi da quelli utilizzati o utilizzabili nell'abbigliamento secondo un criterio di normalità sociale, sicché non si possa ragionevolmente ipotizzare che siano indossati al di fuori del luogo di lavoro>> (Cass. n. 1352/2016).
Ecco che allora, anche in ambito europeo, si è stabilito che <<il tempo necessario ad indossare la divisa aziendale rientra nell'orario di lavoro se è assoggettato al potere di conformazione del datore di lavoro>> (Corte di Giustizia, 10.09.2015, C-266/14).
Con specifico riguardo alle esigenze di sicurezza e igiene pubblica e, in particolare, agli addetti alle mense - fattispecie comunque applicabile per analogia ad altri lavoratori - è stato ritenuto che <<ricorrono i presupposti per il riconoscimento del rientrare della vestizione, nel caso di specie, in orario di lavoro e ciò non solo perché è palesemente improponibile che si indossino camice, o cuffie e cappellino per contenere i capelli, nel tragitto verso il lavoro, ma anche per avere la Corte d'Appello, in piena osservanza dei principi appena citati, accertato in concreto la sussistenza di specifico vincolo quanto a tempi e luoghi, in quanto, per ragioni sanitarie, gli indumenti dovevano essere indossati con contiguità locale e temporale rispetto all'attività di lavoro presso la mensa, onde evitare la contaminazione con "polvere, agenti atmosferici, sporcizia ed altro, come ragionevolmente si verificherebbe qualora fosse permesso ai dipendenti di indossare gli stessi a casa e per tutto il tragitto sino al luogo di lavoro">> (Cass. n. 9417/2018).
Il caso degli operatori sanitari
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Di recente la Suprema Corte è ritornata sull'argomento affrontando il caso di alcuni dipendenti dell'AUSL, i quali, appunto, lamentavano il mancato pagamento del compenso a titolo di indennità per lavoro straordinario, per il tempo occorrente per la vestizione, anticipato di 15 minuti rispetto all'inizio del turno.
La Corte di Cassazione, con l'ordinanza n. 3901, depositata in data 11 Febbraio 2019, dopo le alterne vicende delle fasi di merito, richiamando i propri precedenti ha evidenziato come <<questa Corte ha già deciso sull'oggetto della presente controversia, pronunciando il seguente principio di diritto: "In materia di orario di lavoro nell'ambito dell'attività infermieristica, nel silenzio della contrattazione collettiva (nella specie il c.c.n.l. comparto sanità pubblica del 7 aprile 1999), il tempo di vestizione-svestizione dà diritto alla retribuzione al di là del rapporto sinallagmatico, trattandosi di obbligo imposto dalle superiori esigenze di sicurezza ed igiene, riguardanti sia la gestione del servizio pubblico sia la stessa incolumità del personale addetto" (Cass. n.12935 del 2018; Cass.27799 del 2017)>>.
Le decisioni richiamate nella predetta ultima ordinanza e, in particolare, l'ordinanza n. 27799/2017, premette che l'onere della vestizione dei sanitari non è imposto da un interesse aziendale bensì da quello relativo all'igiene pubblica, ciò posto, ha ritenuto <<correttamente affermato il diritto alla retribuzione soltanto per il tempo effettivo eventualmente di volta in volta utilizzato dal lavoratore; che pertanto il punto qualificante della controversa materia diventa verificare se i tempi di vestizione/svestizione siano stati utilizzati fuori o all'interno dell'orario di lavoro.>>.
Nello specifico, quindi, ha statuito che <<che per quanto riguarda il lavoro all'interno delle strutture sanitarie, nel silenzio della contrattazione collettiva integrativa, il tempo di vestizione/svestizione dà diritto alla retribuzione, essendo detto obbligo imposto dalle superiori esigenze di sicurezza e igiene riguardanti sia la gestione del servizio pubblico sia la stessa incolumità del personale addetto>>.
Per inciso, vi è da segnalare come, in virtù delle predette decisioni di legittimità, con il rinnovo del CCNL Sanità, siglato il 21 Maggio 2018, è stata espressamente prevista la retribuibilità del tempo impiegato per la vestizione e svestizione, pari a 15 minuti per ogni turno.
Infine, per completezza, vi è da riferire come il diritto alla retribuzione di tale tempo, qualora dovuto, si prescrive nel termine di cinque anni.
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