di Roberto Cataldi - Scriveva Pier Paolo Pasolini che "il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili". Una frase densa di significato e che vale la pena analizzare con attenzione.
In cosa consiste innanzitutto il "coraggio intellettuale"? Esaminando separatamente le due parole prima di crearne un concetto unitario vero e proprio, si può dire con certezza che il coraggio rappresenta la forza di fare qualcosa, mentre l'intellettualità è la capacità di pensiero conoscitivo che si basa, quindi, sulla conoscenza e l'analisi razionale.
Ecco dunque che il "coraggio intellettuale" prende forma e diventa la capacità e la forza di esprimere il proprio pensiero con onestà e senza preconcetti. Pasolini riconosceva in questo modo all'intellettuale il merito di esprimersi senza la pretesa di ottenere consensi e senza pensare ad alcun tipo di ricompensa come accade generalmente quando si pratica l'attività politica.
Un pensiero intellettualmente onesto è un pensiero che non parteggia ma che sostiene un'idea perché ritenuta giusta anche se non comunemente condivisa o accettata. Si tratta in altri termini di un pensiero che si forma e si perfeziona sulla base di un ragionamento logico non condizionato e che ha come presupposto imprescindibile l'onestà intellettuale. Una dote, questa, da cui discendono alcune conseguenze legate a uno dei pochi punti fermi che che fanno parte del concetto stesso di verità: non esiste una verità assoluta ma una verità soggetta a continue rivisitazioni. Ed è lì che l'onestà del pensiero si riconosce, perché si manifesta proprio attraverso la disponibilità a mettere in discussione se stessi e le convinzioni in precedenza acquisite.
Pasolini, per certi versi, sembra avere ragione nel rimarcare l'esistenza di un contrasto implicito tra l'agire politico (condizionato dal consenso) e il coraggio intellettuale (libero da condizionamenti). Ma siamo davvero convinti che non ci sia alcun modo per emanciparsi da questo stato delle cose?
Probabilmente la possibilità di colmare questo divario non è un traguardo così difficile da raggiungere, o perlomeno non impossibile. Dovremmo però spingerci a prendere dimestichezza con un altro tipo di "coraggio": il coraggio politico", ossia il coraggio di chi sa anteporre il bene comune alla strategia del consenso. Un vero politico dovrebbe distinguersi proprio per questo coraggio, dimostrando di sapersi sottoporre al confronto leale con i propri avversari e costringersi al rigore logico del ragionamento.
Il problema però non è soltanto di natura individuale. Esistono dinamiche "collettive", purtroppo consolidate, che risultano strumentali, per i gruppi politici, al mantenimento del potere.
Se un parlamentare fosse lasciato libero di agire con onestà intellettuale egli dovrebbe poter riconoscere le "buone idee", a prescindere da chi le abbia messe in campo e da ogni altro tipo di valutazione. Ma un simile "coraggio" può essere percepito come un pericolo dal gruppo di appartenenza giacché il ragionamento logico e non politicamente condizionato potrebbe far emergere limiti e contraddizioni che possono portare alla perdita di consensi.
Un parlamentare libero, in un libero Parlamento, dovrebbe agire in base al libero convincimento. Il che significa dover accettare anche l'idea che in democrazia il pensiero può prendere forma attraverso il confronto e il dibattito costruttivo tra le diverse posizioni in campo. Sappiamo bene che tutto questo comporta dei rischi ed è per questo che il mondo politico si è sempre accontentato di "sopravvivere" piuttosto che accettare la sfida e lasciarsi coinvolgere dalle affascinanti dinamiche della democrazia.
La libertà del politico viene così sacrificata all'esigenza (reale?) di garantire la compattezza del gruppo. Una compattezza che non si limita alla sola condivisione di valori e di principi ma che diventa un generalizzato appiattimento su un pensiero unico, frutto di una banale strategia delle statistiche e delle ricompense elettorali. Ed ecco che in un attimo l'onestà, prima, e l'intellettualità, poi, soccombono e la politica diventa una attività fondata sull'ipocrisia e l'incoerenza che, ovviamente, generano una "repubblica fondata sul paradosso".
Dentro questo "humus" germoglia la patologia del nostro sistema e prospera il malcostume di una classe politica che, per sopravvivere, si trova costretta a ricorrere al mediocre esercizio della partigianeria fine a se stessa. Il Parlamento, così, non è più luogo di confronto ma la palude dello scontro permanente dove prevale il principio dell'obbedienza rispetto al beneficio del dubbio.
Se non vogliamo rassegnarci a questo stato delle cose dobbiamo fare uno sforzo affinché la constatazione di Pasolini lasci il passo alla possibilità, non solo teorica, di una politica incentrata su una modalità "sana" di operare. Una politica che, in primo luogo, sappia restituire centralità al Parlamento e garantire che l'onestà intellettuale possa diventare la base su cui si fonda la vera democrazia e la vera politica, ossia quella che non perde mai di vista il suo fine ultimo: aiutare gli uomini a vivere meglio!
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