di Salvatore Tartaro - Il presente contributo ha ad oggetto lo studio dei profili soggettivi ed oggettivi del danno, e cioè lo studio sulla struttura del danno come determinata dallo ius positum ed elaborata dallo ius vivens, e sulla titolarità delle posizioni soggettive attive, e quindi sulla titolarità del diritto di credito.
Sotto il profilo oggettivo, l'indagine verterà rispettivamente sulla ricostruzione dei profili patrimoniali del danno nella duplice componente eziologica-ontologica, e sul riepilogo dei profili oggettivi del danno non patrimoniale, e cioè sull'analisi dei profili strutturali del danno biologico, morale ed esistenziale.
Sotto il profilo soggettivo, invece, l'indagine verterà sulla titolarità delle posizioni attive, in quanto nelle more dell'elaborazione giurisprudenziale, il danno non patrimoniale ha acquisito profili sempre più ampi e confini sempre più sfumati che hanno consentito di traslarne la titolarità mortis causa in capo agli eredi, che oltre alla risarcibilità del danno esistenziale iure proprio, acquisiscono la titolarità mortis causa del danno biologico che ha condotto alla morte di prossimi congiunti, con conseguente possibilità di esercitare l'azione di responsabilità iure hereditatis ex art. 2043 c.c.
- La dimensione oggettiva del danno
- Il c.d. danno tanatologico
- I profili soggettivi dell'azione risarcitoria
La dimensione oggettiva del danno
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Mentre le regole in materia di determinazione e quantificazione del danno sono confluite nell'ambito della disciplina delle obbligazioni ex artt. 1223 ss. c.c., al danno extracontrattuale furono assegnate le regole additive speciali ex artt. 2056-2059 c.c. che collocarono il risarcimento danno morale solo in caso di illecito extracontrattuale, per di più in presenza di un illecito rilevante sul piano penale
Il principio generale della sedes materiae è il principio del duplice fattore di determinazione del danno, la perdita subita dal creditore, o dimensione ontologica, o più comunemente danno emergente, ed il mancato guadagno, o lucro cessante quale dimensione eziologica dello stesso.
Il danno risarcibile deve essere diretto ed immediato, con la conseguenza che si riduce il risarcimento per concorso colposo del creditore e del danno evitabile dal creditore usando l'ordinaria diligenza ex art.1227.
Il danno di si realizza, quindi, nelle due componenti del damnum emergens e lucrum cessans.
Il primo consta delle perdite patrimoniali ed attuali che siano conseguenza diretta ed immediata del danno, e cioè della diminuzione del valore complessivo del patrimonio del danneggiato a causa della lesione di un bene giuridico di cui il danneggiato ha titolarità hic et nunc.
Il secondo consta delle perdite di guadagno futuro, che siano diretta conseguenza del danno, e cioè di una diminuzione del valore del possibile arricchimento del danneggiato che è, pertanto, onerato di fornire i riscontri probatori, anche tramite elementi presuntivi, circa l'impiego specificamente progettato e concretamente predisposto che non si è realizzato.
In materia di danni alla salute dell'individuo si è parlato di danno emergente con riferimento al valore del peggioramento delle condizioni bio-chimiche dell'organismo, e cioè la componente ontologica del danno alla salute riguarda il valore economico complessivo dell'inabilità, temporanea o permanente che sia, purché conseguenza immediata e diretta dal danno.
Per converso di lucro cessante nell'ambito del danno alla salute se n'è discusso, in modo speculare, quale perdita dell'arricchimento patrimoniale futuro direttamente connesso all'inabilità, esemplificativamente il mancato guadagno conseguente alla cessazione dell'attività lavorativa, con la conseguenza che l'accertamento della componente ontologica del danno ha valore pregiudiziale ai fini dell'esistenza stessa di una componente eziologico.
Dalla perdita delle prospettive future ed attese deve tenersi distinto il concetto di perdita di chance, mutuato dal diritto romano, in particolare dall'espressione latina cadentia, che indica il cadere dei dadi, e significa, in sostanza, buona probabilità di riuscita, caratterizzata da una possibilità di successo non priva di consistenza, a fortiori ratione dopo che la S.C. è pervenuta a qualificarla, nell'ambito del danno alla salute, come perdita delle possibilità di sopravvivenza che attiene non al lucro cessante, bensì «al momento della determinazione del danno [costituendo] oggetto della perdita».[1]
Richiamando, a titolo di premessa, quanto già detto nel cap. IV di questa tesi sull'elaborazione giurisprudenziale che ha condotto dallo sganciamento del danno non patrimoniale risarcibile dalle fattispecie costituende parimenti illecito penale, alla ricomposizione della dimensione onnicomprensiva del danno non patrimoniale inteso quale lesione di un interesse costituzionalmente tutelato, si procederà con la ricostruzione dei profili oggettivi delle varie voci di danno.
Cominciando dal danno biologico, la nozione è imperniata sull'assunto della prominenza del bene giuridico dell'integrità fisica che quindi deve trovare tutela non solo quando la menomazione abbia compromesso, totalmente o parzialmente, definitivamente o temporaneamente, le capacità del soggetto di attendere alle sue ordinarie occupazioni produttive, ma in tutte le ipotesi in cui la menomazione abbia determinato un depauperamento del valore biologico dell'individuo, sicché sia rivendicata una dimensione meta-patrimoniale dell'integrità fisica svincolata dalle logiche socio-economiche occorse lungo il binomio salute-reddito.
Quindi il danno biologico è il danno da modifica in peius del valore biologico dell'individuo ancorché non abbia rilevanza sul piano della sua capacità produttiva.
La radice costituzionale del diritto all'integrità psico-fisica risiede all'art. 32 cost., che tutela la salute «anche e soprattutto come diritto fondamentale dell'individuo, sicché si configura come un diritto primario ed assoluto, pienamente operante anche nei rapporti tra privati [da cui promanano] posizioni soggettive direttamente tutelate dalla Costituzione, [ed in quanto tali] non sembra dubbia la sussistenza dell'illecito, con conseguente obbligo della riparazione, in caso di violazione del diritto stesso, [con la conseguenza che] l'indennizzabilità non può essere limitata alle conseguenze della violazione incidenti sull'attitudine a produrre reddito ma deve comprendere anche gli effetti della lesione al diritto, considerato come posizione soggettiva autonoma, indipendentemente da ogni altra circostanza e conseguenza».[2]
Seguendo le note di indirizzo della giurisprudenza costituzionale, poi, la S.C. ha precisato che il «danno biologico consiste nelle ripercussioni negative, di carattere non patrimoniale e diverse dalla mera sofferenza psichica, della lesione psicofisica ».[3]
Al fine della quantificazione del danno, la tesi preponderante propendeva per un accertamento del danno patrimoniale imperniato sul criterio del reddito del danneggiato, il quale non violerebbe l'art. 3 della Costituzione «poiché, per quanto si è detto, la lesione del diritto alla salute, autonomamente considerato, può trovare, nel caso di specie, congrua riparazione, a prescindere da ogni riflesso di ordine economico».[4]
Per altro verso, in virtù del principio ex art. 36 Cost. per cui la retribuzione è commisurata alla quantità e alla qualità del lavoro svolto, non può dubitarsi in ossequio al canone della ragionevolezza che il danno, il quale incida su attività lavorative diverse e su redditi diversi, deve essere risarcito secondo canoni diversi.
In alternativa al criterio di valutazione basato sul guadagno, qualora il danneggiato non goda di reddito lavorativo, si parla di reddito figurato, che si calcola sulla scorta di presupposti differenti per caso di specie; così, in via esemplificativa per la casalinga si calcola in base alla sua collaborazione nella famiglia; per il disoccupato in base alla prospettive di lavoro; per il bambino in base al costo della sua educazione e del suo allevamento.
Ad insistere con questo ragionamento si finisce con l'annichilire la portata del principio espresso dalla giurisprudenza di costituzionalità secondo cui la lesione dell'integrità fisica costituisce un quid autonomo rispetto al danno patrimoniale, rectius il valore della salute trascende e prescinde le capacità produttive dell'individuo.
Avverso la soluzione differenziata per reddito effettivo o presumibile del danneggiato, in giurisprudenza si è assistito alla formazione di una varietà di criteri di determinazione del danno biologico teleologicamente orientati alla rimozione delle disparità valutative di un criterio fondato sul reddito, ricercando gli elementi differenziali sulla scorta di fattori non modificabili, quali il sesso e l'età.
In questo senso si era orientata la giurisprudenza di merito, compendiata nel filone cd. genovese, che nell'attuare un criterio egualitario per età e per sesso, ha utilizzato la nozione di reddito nazionale pro capite.
Per altro verso, sotto la spinta di autorevoli posizioni dottrinarie, il filone cd. toscano era pervenuto all'affermazione di una modalità di liquidazione equitativa, avendo, questa il vantaggio di una maggiore flessibilità nell'adeguamento alle esigenze e circostanze della fattispecie concreta.
Non tuttavia una valutazione arbitraria, ma discrezionale, che tenga conto delle particolarità esistenziali della persona, cioè di quelle esigenze connaturate alla sua personalità ed attinenti quindi al suo libero sviluppo, individualizzando il criterio di liquidazione prescindendo, quindi, dal fattore del reddito lavorativo.
Senonché, a ben vedere, lo stesso criterio equitativo pone problemi di ragionevolezza se si considera che, la discrezionale scelta dei parametri di valutazione del danno da parte dei giudici di merito, possa condurre a pronunce radicalmente opposte in presenza di circostanze analoghe, e cioè il criterio dell'apprezzamento equitativo del danno biologico non esclude la violazione del principio di ragionevolezza dal punto di vista del postulato per cui a situazioni uguali devono essere applicati regolamenti normativi uguali.
A tal uopo la giurisprudenza di merito milanese ha elaborato e diffuso delle tabelle di calcolo, finalizzate all'affermazione di criteri uniformi che superino le diversità dei parametri ed elimino le conseguenti incertezze tra gli operatori e le possibili disparità di trattamento.
Per altro, ad onta della costante giurisprudenza della Suprema Corte che ha ricostruito il danno non patrimoniale nella sua dimensione onnicomprensiva, a cui corrisponde l'integralità del risarcimento,[5] in tema di liquidazione del danno per la lesione del diritto alla salute, l'applicazione dei criteri di valutazione equitativa deve comunque consentirne la maggiore approssimazione possibile all'integrale risarcimento, anche attraverso la cd. personalizzazione del danno.[6]
A ciò soccorrono, giustappunto, le tabelle elaborate dalla giurisprudenza del Tribunale di Milano che contengono la quantificazione delle conseguenze «ordinarie» già previste e compensate dalla forfetizzazione del danno non patrimoniale.
Non a caso la S.C. ritiene che tali tabelle possano essere un valido criterio di riferimento ai fini della valutazione equitativa ex art. 1226 c.c., almeno laddove la fattispecie concreta non presenti circostanze che richiedano la relativa variazione in aumento o in diminuzione.
Se ne deduce che tra le ragioni che rendono preferibile l'applicazione delle tabelle del Tribunale di Milano, oltre alla «vocazione nazionale» evidenziata dal precedente n. 12408/11, vi è soprattutto quella data dal fatto che le sono state rielaborate all'esito delle pronunzie delle Sezioni Unite del 2008, e quindi sulla scorta delle considerazioni che hanno ricostruito il danno non patrimoniale quale entità fenomenica unica e non scindibile in sede di quantificazione.
Tale affermazione, tra l'altro, ha determinato la non conformità di un sistema di liquidazione del danno biologico che non comprendesse le altre voci di danno non patrimoniale, rimesse quindi ad un autonoma operazione di liquidazione.
Orbene, l'assioma «della tutela minima risarcitoria spettante ai diritti costituzionali inviolabili», che costituisce l'architrave della teorica della pronunzia delle Sez. Un. suddetta, ha lo scopo di proiettare la tutela risarcitoria nell'ambito dei presidi ai diritti fondamentali riconosciuti dalla Costituzione.
Tale operazione è resa possibile tramite un escamotage interpretativo di estrema eloquenza che, tramite l'innesto del principio costituzionale aggredito nel caso concreto nel sistema previsto all'art. 2059 c.c., perviene alla risarcibilità del danno conseguente alla lesione.
In sostanza si realizza lo scardinamento delle rigide regole della responsabilità extra-contrattuale che collocavano la risarcibilità del danno non patrimoniale alla concomitante rilevanza dell'illecito sul piano penale, e consentendo l'autonoma risarcibilità delle lesioni afferenti aspetti della personalità umana che, quantunque rarefatti, trovano presidio nella Carta Costituzionale.
Così il danno biologico viene risarcito ex artt. 32 cost. e 2059 c.c., quindi per la lesione del diritto alla salute che la «Repubblica tutela quale diritto fondamentale dell'individuo e della collettività»; il «danno da perdita o compromissione del rapporto parentale» nel caso di morte o di procurata grave invalidità del congiunto, viene risarcito ex artt. 2, 29 e 30 Cost. e 2059 c.c.; il danno conseguente alla violazione del diritto alla reputazione, all'immagine, al nome, alla riservatezza, diritti inviolabili della persona incisa nella sua dignità, preservata dagli artt.2 e 3 Cost.[7]
Orbene, nella pronuncia in esame viene effettuata una ricomposizione, frutto di un ripensamento concreto, della categoria del danno non patrimoniale più sensibile alle esigenze della persona umana nei suoi aspetti dinamico-relazionali.
Sulla scorta di siffatta chiave di lettura può essere meglio inteso il passaggio dal danno esistenziale, come categoria, all'ingiustizia costituzionalmente qualificata, da verificare caso per caso attraverso una lettura combinata dell'art. 2059 c.c. con la cd. Groundnorm.
Un passaggio del resto obbligato, salvo non voler assurgere la categoria del danno esistenziale ad autonoma categoria generale, e quindi atipica, in funzione di specificazione del neminen laedere, con conseguente violazione dell'art. 2059 c.c. che expressis verbis postula la tipicità del danno non patrimoniale che «deve essere risarcito solo se previsto dalla legge».
Da non intendersi, tuttavia, quale riserva di legge in senso tecnico, ma piuttosto come riconducibilità del danno ad un interesse che trova spazio nello ius positum, quindi anche nei principi costituzionali, nella misura in cui possa discutersi di autonomia della lesione.
La tutela non deve intendersi ristretta ai casi di diritti inviolabili della persona espressamente riconosciuti dalla Costituzione, ma deve considerarsi clausola di diritto vivente, ex art. 2 Cost., e quindi aperta ad un processo evolutivo, con la conseguenza che l'interprete ha la possibilità di ricercare ogni genere di nuovo interesse sociale nel complessivo sistema costituzionale, e cioè valutare se ogni nuovo interesse può costituire parte integrante di una posizione soggettiva inviolabile della persona umana, e pertanto essere oggetto di una specifica tutela costituzionale.
Quindi il danno non patrimoniale è risarcibile entro il limite segnato dalla ingiustizia costituzionalmente qualificata, e cioè in assenza della lesione di diritti costituzionalmente inviolabili della persona non è data tutela risarcitoria risarcitoria.
Ma v'è un ulteriore presupposto da accertare ai fini della risarcibilità del danno non patrimoniale costituito dalla soglia di gravità dell'offesa.
«Il diritto», dicono le Sez. Un., «deve essere inciso oltre una certa soglia minima, cagionando un pregiudizio serio», e cioè, in altri termini, si richiede che «la lesione deve eccedere una certa soglia di offensività» che qualifica il pregiudizio sul piano della meritevolezza.
Il giudizio meritevolezza, per altro, viene espresso previo bilanciamento tra il principio di solidarietà quello di tolleranza, intesi come speculari facce della stessa norma - l'art. 2 Cost. - con la conseguenza che non è dovuto risarcimento in presenza di danni futili che non oltrepassino la soglia di tollerabilità, poiché questi devono essere accettati in virtù del dovere della tolleranza che la convivenza impone.
Le medesime considerazioni valgono, in linea di principio, in presenza di danno biologici di lieve entità.
Del resto che «al bilanciamento - che doverosamente va operato tra i valori assunti come fondamentali dalla nostra Costituzione ai fini della rispettiva, complessiva, loro tutela - non si sottraggono neppure i diritti della persona consacrati in precetti della normativa europea», lo aveva precisato anche la Corte Costituzionale che «a differenza della Corte EDU (…) opera una valutazione sistemica e non isolata dei valori coinvolti dalle norme di volta in volta scrutinate».[8]
Altro pregio della pronuncia riguarda l'estensione della tutela a favore del creditore danneggiato dall'inadempimento, ciò in considerazione del fatto che se è vero che «dal principio del necessario riconoscimento per i diritti inviolabili della persona», consegue la necessaria predisposizione della tutela risarcitoria, allora qualsiasi «lesione dei diritti inviolabili della persona che abbia determinato un danno non patrimoniale comporta l'obbligo di risarcire tale danno, quale che sia la fonte della responsabilità, contrattuale o extracontrattuale».
Se ne deduce che in presenza di una lesione di un diritto costituzionalmente tutelato conseguenza immediata e diretta dell'inadempimento dell'obbligazione la tutela risarcitoria del danno non patrimoniale potrà essere versata nell'azione di responsabilità contrattuale, senza ricorrere all'espediente del cumulo di azioni, proiettando nell'interpretazione della «causa concreta [del negozio], (…) intesa come ragione concreta della dinamica contrattuale» l'individuazione degli interessi a contenuto non non patrimoniale.
In quest'ottica assume consistenza la necessità di guardare al danno non patrimoniale nel duplice angolo visuale della componente ontologica, quindi della lesione in se, e della componente funzionale, quindi della perdita in valore di opportunità future e concretamente possibili nella situazione anteriore alla verificazione del danno, «accertati dal giudice secondo il parametro costituito dalla coscienza sociale in un determinato momento storico».[9]
Il c.d. danno tanatologico
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La sussistenza del cd. danno tanatologico è stata negata per anni dalla giurisprudenza costante, sulla base di di una concezione socio-culturale di morte quale cessazione delle conseguenze pregiudizievoli del defunto.
La morte come fatto naturale che libera dalle pene del corpo, esclude l'esistenza dei presupposti di un risarcimento.
Si viene a configurare così la situazione paradossale per cui mentre può essere risarcito il danno biologico per la perdita di un dito, nei casi in cui tale danno sia letale, e cioè cagioni la morte del danneggiato, non spetta alcun risarcimento del danno non patrimoniale, trattandosi questo di un danno personale, ed essendo venuto meno il soggetto titolare nel bene giuridico leso.
In altri termini il danno biologico da morte non è risarcibile, proprio perché la morte estingue la posizione giuridica del de cuis, con la conseguenza che agli eredi compete il risarcimento del danno non patrimoniale iure proprio per la perdita di un proprio familiare, ma non il risarcimento di quel danno che ha portato alla morte, essendo con la vita, estinta anche la corrispettiva posizione giuridica attiva.[10]
Si segnalano, per converso, alcuni tentativi di ammissione del risarcimento del danno tanatologico, come nel caso della sent. della Cass. Civ. n. 1361 del 2014 con cui viene riconosciuto il diritto al risarcimento del danno da morte della vittima trasmissibile iure hereditatis agli eredi, ai quali spetterà la liquidazione dei danni, il cui tiro è stato corretto con il controsterzo delle Sez. Un. del 22 luglio 2015, nella pronuncia recante il n. 15350, in cui è stato precisato che il danno tanatologico non può essere riconosciuto nel caso in cui tra il danno e la morte sia passato un breve lasso di tempo.
Il danno tanatologico quindi sarebbe risarcibile iure successionis se e solo il danneggiato viva abbastanza oltre il momento della lesione per comprendere, acquisire coscienza del proprio stato, del dolore prodotto dal decorso inesorabile del processo morboso che lo affligge, id est il danno è risarcibile solo se la lesione stessa non implica direttamente la perdita della vita, essendo ontologicamente differente il danno da lesione terminale, e la morte che del caso precedente costituisce il momento conclusivo.
Dal punto di vista fenomenico la differenza è sostanziale e legittima effettivamente l'adozione del discrimen temporale.
Ed infatti il danno tanatologico non è il danno realizzato dalla morte, ma il danno che conduce progressivamente alla morte, e cioè è un danno costituito da componenti eterogenee, inerenti al progressivo depauperamento dello stato di salute, e correlativamente all'incrinazione delle dinamiche socio-relazionali, sino alla drammatizzazione sul piano delle relazioni affettiva di un inesorabile percorso unidirezionale, non arrestabile, verso la fine della vita, che non coinvolge solo il soggetto afflitto ma anche gli individui moralmente ed emozionalmente ad esso legati.
Da quest'angolo visuale allora ben si intuisce la scelta del discrimen temporale laddove si consideri che una morte immediata, sul piano fenomenico, e quindi sul piano epistemologico, trancia di netto quest'intricata rete di turbe relazionali, umanamente drammatiche, che per converso legittimano l'esercizio dell'azione risarcitoria iure successionis.[11]
Le Sez. Un. quindi, ritengono di dare continuità al risalente e costante orientamento sul tema del danno da morte immediata, conforme anche agli orientamenti della giurisprudenza europea, secondo cui non possa essere invocato un diritto al risarcimento del danno da morte iure hereditatis.
Se ne deduce una concezione autonoma del bene giuridico "vita" fruibile solo in natura da parte del titolare e insuscettibile di essere reintegrato per equivalente.
Poiché una perdita, per rappresentare un danno risarcibile, è necessario che sia rapportata a un soggetto che sia legittimato a far valere il credito risarcitorio, nel caso di morte verificatasi immediatamente o dopo brevissimo tempo dalle lesioni personali, l'irrisarcibilità dell'evento morte deriva dall'assenza di un soggetto al quale, nel momento in cui si verifica, sia collegabile la perdita stessa e nel cui patrimonio possa essere acquisito il relativo credito.
Viene corroborato ab sustantiam l'argomento epicureo, così denominato in dottrina rievocando un passo della Lettera sulla felicità a Meneceo secondo cui «il più temibile dei mali, la morte, non è nulla per noi, perché quando ci siamo noi non c'è più la morte, quando c'è la morte non ci siamo più noi. La morte quindi è nulla, per i vivi come per i morti: perché per i vivi essa non c'è ancora, mentre per quanto riguarda i morti, sono essi stessi a non esserci».
I profili soggettivi dell'azione risarcitoria
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Le argomentazioni in materia di danno tanatologico suesposte mettono in risalto il valore sistematico del concetto di posizione giuridica attiva e rispettiva titolarità.
Il danno da morte immediata, o comunque in un lasso di tempo non apprezzabile, non è risarcibile iure successionis perché nel momento in cui si verifica la lesione terminale del bene vita, viene parallelamente meno la posizione giuridica rispettiva, e con esso la sua titolarità.
In questo senso il lasso di tempo apprezzabile tra la lesione e la morte consente la proiezione delle conseguenze del danno nella sfera giuridica del danneggiato che ne acquisisce consapevolezza, sicché sopravvenuto l'exitus il diritto al risarcimento del danno è già maturato e, pertanto, è trasmissibile iure haereditatis, insieme a tutto il patrimonio del de cuis, agli eredi universali.
Le Sez. Un. ne fanno, quindi, una questione dogmatica: non vi può essere risarcimento se il danno non si produce in una sfera giuridica attiva, e nel caso da morte immediata, non esiste più la posizione giuridica, né tanto meno chi di questa abbia la titolarità.
Dal punto di vista delle categorie del diritto la soluzione prospettata dalla S.C., per quanto paradossale possa apparire l'affermazione della non esistenza di un danno giuridicamente rilevante nei casi di morte immediata, non pare discutibile.
Né appaiono decisivi gli argomenti assunti dalla giurisprudenza contraria che aveva fomentato il ricorso alla funzione nomofilattica per sanare l'irriducibile contrasto emergente dalla casistica.
Un danno affinché sia risarcibile deve ripercuotersi con efficacia peggiorativa sullo status quo, deve determinare una perdita in valore assoluto all'interno del un patrimonio del danneggiato, poiché sulla scorta della quantificazione di tale diminuzione viene computata la componente emergente dello stesso.
Se la posizione giuridica si estingue, come avviene nel caso di morte immediata, non rimane spazio per la riduzione del patrimonio del de cuis, né tanto il danno subito dallo stesso può essere quantificato, magari ex ante, ed essere attribuito agli eredi in via successoria.
Ebbene, soffermandoci sull'ambito specifico di questa tesi, sul danno prodotto da esposizione indebita a radiazioni ionizzanti, si procede a riepilogare il complesso quadro delle posizioni giuridiche soggettive attive potenzialmente coinvolte in presenza della verificazione di un danno stocastico.
Verificatosi il danno, diagnosticata la patologia, per il soggetto afflitto comincia il calvario della terapia, a fortiori nei casi in cui si tratti di una patologia grave, degenerativa, come sono le neoplasie maligne,
In tali evenienze il malato non solo deve affrontare un percorso terapeutico aleatorio, fisiologicamente depauperante, bensì si trova proiettato in una dimensione surreale in cui acquisisce giorno dopo giorno la consapevolezza dall'appropinquarsi dell'exitus, che può, contrariamente, sopravvenire a distanza di anni, ciònondimento nei casi in cui la terapia si concluda con esito positivo, in considerazione della frequenza della recidiva, soprattutto in presenza di determinate condizioni non modificabili, quali il sesso, l'età e i fattori di predisposizione genetica.
In sostanza, ancorché guarito dalla prima aggressione della malattia, in buona parte dei casi in cui la neoplasia sia diagnosticata nel momento in cui la progressione stadiale non consente di avere la certezza sulla non migrazione di cellule malate in altri parti dell'organismo, prodromo di metastatizzazione, a distanza di un decennio si verifica la recidiva, con capacità aggressive superiori, che dì li a breve conduce alla morte.
Tale affermazione può essere avvalorata già sul piano dell'id quod plerumque accidit, per esperienza comune, o anche in base alla casistica giurisprudenziale.
Ciò è, per esempio, accaduto nel caso sottoposto all'esame del Tribunale di Terni, sopra citato, in cui l'infermiera, a seguito di una mestectomia al cavo ascellare per l'escissione di un tumore mammario, viveva per altri 8 anni prima di incorrere nella recidiva, in conseguenza della quale è deceduta, non prima di aver subito nuovamente le conseguenze pregiudizievoli insite in trattamenti terapeutici aggressivi.
Orbene quanto premesso vale a cogliere la dimensione fenomenica unitaria del danno stocastico.
Un individuo che si ammala di un neoplasia, con diagnosi complessa dal punto di vista della crescita stadiale, della capacità mitotica e dell'infiltrazione presso altri organi, subisce un danno storico, che si snoda nel tempo e che finisce per il coinvolgere, e per il danneggiare progressivamente una molteplicità di aspetti della vita relazionale del danneggiato, oltre che della sua integrità psico-fisica.
Tale danno andrebbe risarcito, giusto il principio dell'onnicomprensività del danno e dell'integralità del risarcimento, nella sua dimensione storica, come danno non patrimoniale articolato nelle voci di danno biologico terminale, di danno esistenziale e relazionale, anche con specifico riferimento alla vita familiare.
Di tale danno onnicomprensivo è titolare il danneggiato iure proprio, ovvero gli eredi per diritto di successione.
Ma non solo. È indiscutibile che il manifestarsi di un processo morboso, che già dal punto di vista della coscienza sociale è qualificato aprioristicamente come "grave", possa proiettare le conseguenze dannose anche al di fuori della sfera giuridica del soggetto afflitto.
Si consideri che la sfera giuridica attiva dell'individuo, nel ridisegno costituzionalmente orientato dato dal diritto vivente, si compone, in valore assoluto, tanto da interessi di tipo patrimoniale, che di tipo non patrimoniale, ivi intendendosi la summa da tutti gli interessi afferenti alla personalità umana, di tutti quei diritti personalissimi e fondamentali riconosciuti non solo espressamente dalla Carta Costituzionale, ma dal diritto vivente tramite la clausola di solidarietà ex art. 2 cost.
Se ne deduce che il valore non patrimoniale della sfera giuridica attiva di ogni individuo si compone anche delle sottili dinamiche relazionali che arricchiscono la personalità dell'uomo e corroborano il percorso verso una piena estrinsecazione della propria personalità.
Se quindi nell'ottica del ridisegno costituzionale i valori e gli interessi inerenti il pieno godimento e la piena estrinsecazione della personalità umana acquisiscono rilevanza giuridica, le dinamiche relazionali, in quanto parte integrante del momento costruttivo della propria personalità, e le dinamiche emozionali, come parte integrante del valore non patrimoniale della sfera giuridica della persona, devono parimenti acquisire protezione giuridica, derivandone dalla lesione sia una perdita del valore statico, che di quello dinamico della propria personalità.
Ed allora quando un individuo assiste all'inesorabile e tumultuosa agonia e morte del coniuge, di genitore, un fratello, o addirittura del più caro degli amici, subisce fuor di dubbio un danno non patrimoniale ontologico afferente ora alla vita relazionale, ora a fortiori ratione alla vita familiare; e lo assiste, talvolta, non impassibile, ma in modo attivo, sacrificando il proprio tempo, i propri interessi, i propri impegni per dare un contributo, subendo così anche un danno eziologico, da lucro cessante, per la perdita delle possibilità future di arricchimento, che possono avere rilevanza patrimoniale - si pensi a chi lascia il lavoro per assistere nell'agonia un prossimo congiunto - ma anche non patrimoniale, e cioè da mancato conseguimento dell'arricchimento umano che il tempo futuro passato con quella persona avrebbe arrecato.
Se ne deduce quindi che il danno stocastico, conseguente ad esposizioni indebite a radiazioni ionizzanti, non fa sorgere solo il diritto al risarcimento in capo al danneggiato iure proprio, o iure haereditatis in capo agli eredi, ma anche il diritto al risarcimento della danno non patrimoniale iure proprio in capo ai prossimi congiunti, o in capo a qualunque soggetto sia in grado di provare in giudizio il danno, da esercitare in via aquiliana ai sensi degli artt. 2043 e 2059 c.c.
Al riguardo in giurisprudenza si è parlato di danni riflessi, e di vittime secondarie dell'illecito, quali soggetti legittimati all'azione risarcitoria iure proprio.
Anche tale materia va esaminata sul duplice piano dei profili soggettivi ed oggettivi.
Se è vero che il danno di riflesso può avere un onda lunga, e pur vero che la tutela dei diritti non patrimoniali deve avvenire previo bilanciamento delle istanze di solidarietà e tolleranza, che ha valore non solo sul piano oggettivo dell'individuazione di una soglia minima di tolleranza, ma anche sul piano soggettivo della meritevolezza del danno subito.
Da questo punto di vista occorre chiedersi fino a che punto il danno di riflesso può avere rilevanza giuridica.
L'orientamento tradizionale maturato in sede di risarcimento del danno da delitto, limita la legittimazione dell'azione ai prossimi congiunti, in base ad un giudizio sul valore affettivo della relazione parentale condotto su base concreta.[12]
Al riguardo è stato affermato il principio della «prevedibilità della colpa», in base al quale deve ritenersi sussistente, in capo al soggetto che ha posto in essere la condotta che ha causato la morte, l'elemento della prevedibilità dell'evento in relazione alla lesione, in danno dei superstiti, dell'interesse all'intangibilità delle relazioni familiari, con valutazione condotta in astratto rientrando nell'id quod plerumque accidit il fatto che la vittima sia inserita in un nucleo familire.[13]
La legittimazione ad agire, allora, è attribuita ai prossimi congiunti a ristoro del «danno arrecato all'intangibilità della sfera degli affetti e della reciproca solidarietà nell'ambito della famiglia e all'inviolabilità della libera e piena esplicazione delle attività realizzatrici della persona umana nell'ambito di quella peculiare formazione sociale costituita dalla famiglia», e pertanto a prescindere dal danno conseguente alla perdita dell'eventuale sostegno economico apportato dalla vittima.[14]
Quanto poi al perimetro dei soggetti legittimati iure proprio, l'orientamento di legittimità tutt'oggi maggioritario, individua l'architrave della legittimazione nella prova delle conseguenze dannose che sia sintomatologiche di un grave perturbamento del animo e della vita familiare, per la perdita di un valido sostegno morale.
Un criterio maggiormente specificativo può essere estrapolato dalle indicazione di quel filone della giurisprudenza di merito, che ha riconosciuto la presunzione di legittimazione in capo agli appartenenti al nucleo famigliare, fondando, per converso, la prova della legittimazione di altri parenti sulla scorta dell'accertamento della perdita di un effettivo e valido sostegno morale ovvero una grave alterazione della normale esistenza, che tuttavia è difficilmente riscontrabile al di fuori dei gradi di parentela che hanno diritto ad essere assistiti, anche moralmente, dalla vittima.
Occorre precisare, infine che per pacifico orientamento della giurisprudenza di legittimità ogni legame affettivo duraturo che, per la significativa comunanza di vita e di affetti sia equiparabile al rapporto coniugale, deve ritenersi idoneo a costituire il fondamento di una pretesa risarcitoria per il danno non patrimoniale subito in conseguenza della morte del convivente more uxorio,[15] ovvero dell'«altra parte», rectius dalla parte superstite dell'unione civile celebrata ai sensi degli artt. 1, 2 e 3 della l. 20 marzo 2016, n. 76.
Quanto poi ai profili materiali del danno, ai prossimi congiunti, da casistica giurisprudenziale, è stato riconosciuto il danno biologico iure proprio, sorretto dall'accertamento «di un processo patogeno originato dal medesimo turbamento dell'equilibrio psichico»;[16]il danno morale ed il danno da perdita delle relazioni parentali.
Quanto al danno biologico è evidente che questo vada risarcito alla stregua dei principi della sedes materiae suesposti, e quindi sulla scorta di un concreto accertamento del nesso causale tra il danno biologico e danno afflittivo da perdita di un prossimo congiunto.
Quanto ai criteri di liquidazione del pregiudizio occorre attenersi ai principi fissati dalle Sez. Un. della S.C. la cui lettura costituzionalmente orientata dell'art. 2059 c.c. induce a riportare il sistema della responsabilità aquiliana nell'ambito della bipolarità tra danno patrimoniale e danno non patrimoniale, con la conseguenza che mentre nel rispetto dell'integralità del risarcimento occorre evitare le duplicazioni delle voci del danno, in sede di liquidazione, poiché si è in presenza di un danno alla salute, devesi integrare il criterio tabellare con l'operazione di personalizzazione del danno alla stregua della consistenza delle sofferenze.
Il primo orientamento giurisprudenziale in materia di danno morale da perdita di relazione parentali risale alla sent. della S.C. del 31 maggio 2003, recante il n. 8828, che riconosce l'idoneità plurioffensiva della morte di un uomo, ledendo in tal modo l'interesse di rilevanza costituzionale alla intangibilità della sfera degli affetti reciproci e della scambievole solidarietà tra i familiari.
Così disegnato il danno, ai fini della sua risarcibilità era necessario accertare il nesso di causalità materiale tra la condotta del colpevole e la morte della vittima primaria, e quindi selezionare le conseguenze meritevoli di tutela in base al principio della regolarità causale.
Il danno da uccisione di un congiunto sarebbe ontologicamente proiettato verso il futuro e può, dunque, affiancarsi e convivere col danno morale soggettivo contingente, inteso quale sofferenza indotta dall'ingiustizia patita, ponendosi in evidenza l'esigenza l'attenta ponderazione delle poste risarcitorie onde evitare il rischio di duplicazioni del risarcimento.
Da un lato il danno afferiva lo stato di afflizione, di turbamento profondo, di dolore cagionato dalla morte di un proprio caro, dall'altro un interesse protetto, quello all'integrità del vincolo familiare, liquidato in applicazione della valutazione equitativa ex art. 1226 c.c.
Tali affermazioni risultano disattesi precipuamente nella parte relativa alla possibilità di una duplice liquidazione del danno morale soggettivo, trovando oramai spazio un unica voce di danno non patrimoniale interamente assorbita dalla categoria del danno parentale da morte del congiunto.
In definitiva, nella nuova sistematica del danno non patrimoniale delineata dalle Sezioni Unite, la perdita di una persona cara implica necessariamente una sofferenza morale, la quale non costituisce un danno autonomo, ma rappresenta un aspetto rilevante inter alia nella liquidazione unitaria ed omnicomprensiva del danno non patrimoniale, con conseguente giudizio inammissibilità della «congiunta attribuzione (…) del risarcimento a titolo di danno da perdita del rapporto parentale, del danno morale, inteso quale sofferenza soggettiva» poichè costituendo un aspetto del più generale danno non patrimoniale, finisce per violare il principio di non duplicazione del risarcimento.[17]
Le lesioni della sfera affettivo-familiare suscettibili di integrare la dimensione oggettiva del nuovo ed unitario danno da perdita del congiunto, dovranno oggi essere valutate dal giudice soltanto qualora presentino una rilevanza ed un disvalore autonomo che prescinda dalla «sofferenza subiettiva» del soggetto, determinandosi in caso contrario una duplicazione risarcitoria del medesimo pregiudizio.
Tale conclusione appare perfettamente rispondente all'insegnamento impartito dalle Sezioni Unite nella già citata sentenza del novembre 2008, in considerazione dei cui principi espressi, appare corretto affermare che il danno da perdita del congiunto può assumere, in linea generale, una duplice connotazione soggettiva, che attiene a tutte le conseguenze che derivano al danneggiato dalla privazione del vincolo parentale, o oggettiva, inerenti i riflessi oggettivi della lesione, quindi tutte le lesioni che l'individuo subisce nell'ambito della sua sfera familiare, dotati di un loro autonomo disvalore a prescindere dalla sofferenza soggettiva cagionata alla sfera interiore.
Al prossimo congiunto è inoltre risarcibile anche il danno patrimoniale iure proprio, nei due componenti del danno emergente, cioè consistente in spese causate dal decesso del parente e del da lucro cessante, consistente o nella diminuzione di contributi o sovvenzioni, oppure nella perdita di utilità che, per legge o per solidarietà familiare, sarebbero state conferite dal soggetto scomparso.[18]
Il diritto al risarcimento del danno patrimoniale, che spetta, a norma dell'art. 2043 c.c., ai congiunti di persona deceduta a causa dell'altrui fatto illecito, richiede l'accertamento in concreto che i medesimi siano stati privati di utilità economiche di cui già beneficiavano e di cui, presumibilmente, avrebbero continuato a fruire in futuro ove il de cuius non fosse venuto meno, così come per la morte di un figlio studente, il genitore ovvero altro congiunto è chiamato a provare il supporto economico che il figlio avrebbe garantito alla famiglia una volta entrato nel mondo del lavoro.[19]
[1] Cfr. Cass. Civ., sent. del 4 marzo 2004, n. 4400, «(...) il danno da perdita di chance è ontologicamente diverso rispetto a quello da mancato raggiungimento del risultato sperato (...)».
[2] Cfr. Corte Costituzionale, sent. del 12 luglio 1979, n. 88.
[3] Cfr. Cass. Civ., sent. del 12 maggio 2006, n. 11039.
[4] Più precisamente si legge che «Il bene della salute é direttamente tutelato dalla Costituzione (art. 32), non solo come interesse fondamentale della collettività ma anche e soprattutto come diritto fondamentale dell'individuo, pienamente operante nei rapporti fra privati e risarcibile indipendentemente da qualsiasi riflesso sull'attitudine del danneggiato a produrre reddito», Corte Costituzionale, sent. del 12 luglio 1979, n. 88.
[5] «In tema di risarcimento del danno alla salute, la necessaria liquidazione unitaria del danno biologico e del danno morale può correttamente effettuarsi mediante l'adozione di tabelle che includano nel punto base la componente prettamente soggettiva data dalla sofferenza morale (…) operando perciò con aumento equitativo della corrispondente quantificazione (...) secondo l'id quod plerumque accidit (...)», Cass. Civ., sent. del 6 marzo 2014, n. 5243
[6] «con riguardo alla liquidazione del danno non patrimoniale, ai fini della c.d. Personalizzazione del danno forfettariamente individuato attraverso meccanismi tabellari cui la sentenza abbia fatto riferimento spetta al giudice far emergere e valorizzare, le specifiche circostanze di fatto, peculiari al caso sottoposto ad esame», Cass. Sez. Un., sent. del 11 novembre 2008, n. 26972.
[7] In questo senso v. Cass. Civ., sent. del 14 ottobre 2008, n. 25157, «La persona umana ed i suoi diritti fondamentali costituiscono un "unicum" inscindibile. Pertanto, quando tali diritti siano lesi ed abbiano provocato un pregiudizio non patrimoniale (altrimenti detto "danno morale"), uno ed unitario è il danno ed uno e unitario deve essere il risarcimento, ferma restando la necessità che il giudice di merito, nella liquidazione di esso, tenga conto di tutte le concrete conseguenze dannose del fatto illecito».
[8] v. Corte Costituzionale, sent. del 6 ottobre 2015, n. 235.
[9] Cfr. Cass. Civ., SS.UU., sentenza del 11 novembre 2008, n. 26972.
[10] v. ex multis le stesse sent. di San Martino, Cass. Sez. Un. n. 26972 e n. 26973 dell'11 novembre 2008; «Ai familiari del de cuius sopravissuto per sei o sette ore dopo all'evento lesivo, non spetta il risarcimento iure ereditario del danno patito dalla vittima, il quale presuppone la consapevolezza in capo alla vittima dell'imminenza della morte o della gravissima entità delle lesioni subite», Cass. Civ., sent. del 24 marzo 2011, n. 6754.
[11] contrā v. sent. del 4 marzo 2008, Trib. di Terni, secondo cui «[è] lo stesso legislatore ad imporre il risarcimento del danno da morte ovvero tanatologico [in quanto] non sembra condivisibile la divaricazione tra salute e vita, quali beni distinti e quasi connotati da una netta soluzione di continuità; la salute intesa quale benessere psico-fisico è per definizione una qualità essenziale della vita e ne costituisce presupposto indefettibile», con nota di con nota di Valore, 2008.
[12] «Ai prossimi congiunti di persona che abbia subito, a causa di fatto illecito costituente reato, lesioni personali, spetta anche il risarcimento del danno morale concretamente accertato in relazione ad una particolare situazione affettiva con la vittima, non essendo ostativo il disposto dell'art. 1223 c.c., in quanto anche tale danno trova causa immediata e diretta nel fatto dannoso», Civ., Sez. Un., sent. del 01 luglio 2002, n. 9556; Cass. Civ., sez. sent. del 28 novembre 2007, n. 24745.
[13] «Il danno non patrimoniale da uccisione del congiunto non coincide con la lesione dell'interesse protetto, ma, in quanto danno-conseguenza, consiste in una perdita, ossia nella privazione di un valore (non economico, ma) personale, costituito dall'irreversibile venir meno del godimento del congiunto e dalla definitiva preclusione delle reciproche relazioni interpersonali, secondo le varie modalità con le quali essi normalmente si esprimono nell'ambito del nucleo familiare; perdita, privazione e preclusione che, in relazione alle diverse situazioni, possono avere diversa ampiezza e consistenza in termini di intensità e protrazione nel tempo. Da tanto discende che, non essendo configurabile nella specie un danno "in re ipsa", esso deve essere allegato e provato da chi vi abbia interesse, senza che, peraltro, sia precluso il ricorso a valutazioni prognostiche ed a presunzioni (sulla base di elementi obiettivi forniti dall'interessato), venendo in considerazione un pregiudizio che, diversamente dal danno morale soggettivo, si proietta nel futuro, e dovendosi inoltre avere riguardo al periodo di tempo nel quale si sarebbe presumibilmente esplicato il godimento del congiunto che l'illecito ha invece reso impossibile», Cass. civ., sent. del 31 maggio 2003, n. 8828.
[14] Nel primo senso cfr. Cass. Civ., sent. del 16 settembre 2008, n. 23725 «Il danno subito in conseguenza dell'uccisione di un congiunto per la definitiva perdita del rapporto parentale va risarcito ai sensi dell'art. 2059 c.c. (…). Tale danno, essendo ontologicamente diverso dal danno morale soggettivo contingente, può essere riconosciuto a favore dei congiunti unitamente a quest'ultimo; tuttavia, il giudice di merito, nel caso di attribuzione congiunta del danno morale soggettivo e del danno da perdita del rapporto parentale, deve considerare, nel liquidare il primo, la più limitata funzione di ristoro della sofferenza contingente che gli va riconosciuta»; nel secondo v. Cass. civ., sent. 7 maggio 1983, n. 3116 «Il risarcimento del danno non patrimoniale, derivante dalla morte ex delicto, va riconosciuto in favore dei prossimi congiunti, iure proprio, cioè, indipendentemente dalla loro qualità di eredi, quando il rapporto di stretta parentela con la vittima, le condizioni personali ed ogni altra circostanza del caso concreto evidenzino un grave perturbamento del loro animo e della loro vita familiare, per la perdita di un valido sostegno morale».
[15] ex multis v. Cass. Civ., sent. del 16 settembre 2008, n. 23725; Cass. Civ. sent. del 7 giugno 2011, n. 12278.
[16] Cfr. Cass. Civ., sent. del 5 gennaio 2001 n. 116.
[17] cfr. Cassazione civile, Sez. Un., sent. del 11 novembre 2008, n. 26972.
[18] ex multis. v. Cass. Civ., sent. del 11 gennaio 1988, n. 23.
[19] ex multis v. Cass. civ., sent. del 28 agosto 2007, n. 18177; Cass. civ., sent. del 02 febbraio 2007, n. 2318; Cass. civ., sent. del 30 ottobre 2009, n. 23053.
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