di Annamaria Villafrate - Per la sentenza n. 21409/2019 (sotto allegata) della Cassazione commette reato chi fa il saluto fascista durante una riunione consiliare tenuta si per discutere sul "Piano Rom". Non è pensabile considerare tale saluto, che richiama all'abolito partita fascista, di cui la Costituzione vieta la ricostituzione, libertà di manifestazione del pensiero, nel momento in cui si trascende nella discriminazione razziale. Si tratta di un gesto che non può beneficiare della esclusione della punibilità per la lieve entità del fatto, stante la pervicacia dell'imputato e del contesto in cui lo ha effettuato. Non c'è infine attenuante della provocazione che tenga nel gesto di una consigliera che ha promesso che si sarebbe allontanata dall'aula se fosse stato presente qualche organizzatore della manifestazione di protesta contro il Comune.
La vicenda processuale
Il Tribunale di Milano giudicava l'imputato colpevole del reato di cui all'art. 2, co. 1, d.l n. 122/1993 e lo condannava alla pena di un mese e dieci giorni di reclusione, 100.00 euro di multa, oltre al pagamento delle spese processuali. La Corte di appello, pronunciandosi sull'impugnazione confermava la decisione impugnata e condannava l'imputato
appellante al pagamento delle ulteriori spese processuali. La vicenda si inseriva nell'ambito delle proteste nate in seguito alle attività di sgombero di un insediamento Rom, sito in Viale Ungheria a Milano, che aveva creato tensioni tra i cittadini, a seguito delle quali l'imputato aveva organizzato una manifestazione di protesta contro Comune di Milano. L'08/05/2013 era stata fissata la seduta seduta pubblica della Commissione congiunta del Consiglio comunale di Milano avente a oggetto il cosiddetto "Piano Rom". Per lo stesso giorno l'imputato aveva organizzato, a Milano, in Piazza San Babila la protesta proprio contro le modalità di attuazione del "Piano Rom". Per impedire la manifestazione il presidente della commissione sicurezza del Consiglio invitava l'imputato ad assistere alla seduta consiliare e a non scendere in piazza. Uno dei consiglieri comunali, prima dell'inizio della seduta, chiedeva al presidente se fossero presenti gli organizzatori della protesta, evidenziando che, in caso positivo, avrebbe lasciato l'aula. Richiesta alla quale l'imputato rispondeva a voce alta "presenti e ne siamo fieri», effettuando il "saluto fascista", ripreso immediatamente da una giornalista con il telefono cellulare. Il gesto veniva stigmatizzato da alcuni presenti, come risulta dalle riprese audiovisive e dalle trascrizioni dei lavori consiliari, tanto che alcuni consiglieri comunali appellavano l'imputato di essere "fascista", che rispondeva chiamando i suoi accusatori "comunisti". Lo stato di tensione saliva tanto che l'imputato veniva fatto uscire dall'aula consiliare. Per i Giudici milanesi, in base alle risultanze probatorie raccolte, l'imputato aveva effettuato il "saluto fascista". L'imputato però negava di aver fatto il "saluto romano" "precisando di essersi limitato ad alzare la mano, muovendola da destra verso sinistra, per segnalare la sua presenza in aula.Saluto fascista reato: no alla lieve entità e all'attenuante della provocazione
La Cassazione con sentenza n. 21409/2019 rigetta il ricorso dell'imputato, motivando uno ad uno le ragioni per le quali respinge i motivi oggetto di contestazione.
La Corte d'Appello non ha errato nell'argomentare la sentenza. Il suo giudizio di colpevolezza è rispettoso delle risultanze probatorie da cui è emersa la correlazione tra il "saluto fascista" e le parole " presenti e ne siamo fieri". Con queste parole l'imputato ha manifestato la chiara intenzione di rivendicare il suo credo fascista. Ben ha fatto la Corte d'Appello a non prendere in considerazione ipotesi alternative, poiché avrebbe violato la giurisprudenza di legittimità per la quale:" In tema di valutazione della prova, il ricorso al criterio di verosimiglianza e alle massime d'esperienza conferisce al dato preso in esame valore di prova se può escludersi plausibilmente ogni spiegazione alternativa che invalidi l'ipotesi all'apparenza più verosimile, ponendosi, in caso contrario, tale dato come mero indizio da valutare insieme con gli altri elementi risultanti dagli atti."
Per la Corte non è vero poi che il giudice di secondo grado non ha tenuto conto delle argomentazioni difensive pro imputato la cui finalità era di evidenziare come il gesto compiuto, anche se riconducibile al "saluto fascista", non era idoneo a ledere il bene giuridico protetto dall'art. 2 del dl n. 122 del 1993. Il giudice d'appello ha correttamente argomentato nel momento in cui ha spiegato che: "Il "saluto fascista" o "saluto romano" costituisce una manifestazione gestuale che rimanda all'ideologia fascista e ai valori politici di discriminazione razziale e di intolleranza sanzionati dall'art. 2 del decreto-legge n. 122 del 1993, evidenziando che la fattispecie contestata (all'imputato) non richiede che le manifestazioni siano caratterizzate da elementi di violenza, svolgendo una funzione di tutela preventiva, che è quella propria dei reati di pericolo astratto. (…) Non può, in proposito, non richiamarsi la giurisprudenza consolidata di questa Corte, secondo cui il "saluto fascista" accompagnato dalla parola "presente" integra la fattispecie dell'art. 2 del decreto-legge n. 122 del 1993, per la connotazione di pubblicità che qualifica tale espressione gestuale, evocativa del disciolto partito fascista, che appare pregiudizievole dell'ordinamento democratico e dei valori che vi sono sottesi."
Per quanto riguarda poi l'invocata questione d'incostituzionalità dell'art. 2 del d.l 122/1993 per violazione della libertà di manifestazione del pensiero gli Ermellini ribadiscono che: "In questa cornice, non si può non ricordare che questa Corte, in più occasioni, ha ritenuto manifestamente infondata la questione di costituzionalità dell'art. 3 della legge n. 654 del 1975, cui l'art. 2 del decreto-legge 122 del 1993 rimanda, laddove vieta la diffusione di idee fondate sulla superiorità o sull'odio razziale, per contrasto con l'art. 21 Cost., in quanto la libertà di manifestazione del pensiero cessa quando trasmoda in istigazione alla discriminazione e alla violenza di tipo razzista."
Inammissibile anche il motivo sull'esimente della lieve entità "non potendosi ipotizzare, tenuto conto della pervicacia del suo comportamento criminoso e del contesto istituzionale nel quale si concretizzava, la particolare tenuità dell'offesa presupposta dall'art. 131-bis cod. pen."
Infondato infine anche il motivo relativo all'attenuante della provocazione per assenza dei parametri richiesti, poiché la consigliera si era limitata a "manifestare il suo risentimento perché nell'aula consiliare erano presenti, in qualità di ospiti, alcuni esponenti di organizzazioni di estrema destra, senza rivolgersi personalmente (all'imputato) ed esprimendo il suo punto di vista meramente politico" senza alcuna finalità provocatoria.
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