di Valeria Zeppilli - Se il bambino muore durante il parto per asfissia perinatale, l'ostetrica responsabile risponde penalmente per omicidio colposo e non per aborto colposo.
Lo ha chiarito la Corte di cassazione con la sentenza numero 27539/2019 (qui sotto allegata), precisando che la rottura del sacco amniotico è il primo segno di autonomia dell'essere umano nel ventre materno e che quindi, da tale momento in poi, il feto diventa una persona a tutti gli effetti.
- Il passaggio dalla vita uterina alla vita extrauterina
- Non si tratta di analogia in malam partem
- La vicenda
Il passaggio dalla vita uterina alla vita extrauterina
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In altre parole, nel momento in cui il sacco si rompe avviene il passaggio dalla vita uterina alla vita extrauterina e, di conseguenza, chi determina la fine di tale vita non risponde di procurato aborto ma di omicidio.
Tale criterio, come rilevato dalla stessa Corte, è stato preferito "ai fini della identificazione del minimum temporale della previsione normativo di omicidio-feticidio, abbandonando quello inizialmente indicato del momento del distacco del feto dall'utero materno, che non offriva riferimenti temporali sufficientemente precisi".
Non si tratta di analogia in malam partem
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Sollecitati dalle parti, i giudici hanno anche avuto modo di chiarire che l'inclusione dell'uccisione del feto nell'ambito del reato di omicidio non comporta un'analogia in malam partem, non consentita dal nostro ordinamento.
Si tratta, piuttosto, di una "mera interpretazione estensiva", che deve considerarsi pienamente legittima, anche considerando le norme penali incriminatrici.
La vicenda
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Nel caso di specie, l'ostetrica è stata condannata a un anno e nove mesi di reclusione per aver omesso il monitoraggio cardiotografico e aver impedito, così, che la sofferenza fetale fosse scoperta e che fossero adottate le manovre urgenti e indispensabili per scongiurare la morte del feto.
La donna è colpevole di omicidio.
Scarica pdf sentenza Cassazione numero 27539/2019• Foto: 123rf.com