di Annamaria Villafrate - La Cassazione a sezioni unite con sentenza n. 17563/2019 (sotto allegata) chiarisce che l'abogado che utilizza nella corrispondenza con i clienti la sigla av. commette un illecito disciplinare che deve essere sanzionato, senza che rilevi la successiva acquisizione del titolo in seguito al superamento dell'esame di Stato. Tanto più grave poi la condotta di chi utilizza il titolo di av. sul sito internet, a causa della potenzialità diffusiva del mezzo.
La vicenda processuale
Il Consiglio dell'Ordine di Brescia irroga a due iscritti la sanzione disciplinare della sospensione dall'attività professionale per due mesi. Il Consiglio Nazionale Forense riduce la sanzione della sospensione alla censura per l'uomo, mantenendola invece per la collega donna.
Tra le varie accuse l'illecito relativo all'indebita utilizzazione del titolo di avvocato, realizzata mediante l'indicazione del titolo soltanto con le due lettere iniziali "av". Dizione che è stata utilizzata nella corrispondenza con i clienti, ma non con il C.O.A od altri avvocati, da cui risulta evidente l'intento decettivo e confusorio. Illecito di cui rispondono sia l'uomo che la donna.
Nel terzo motivo del ricorso la ricorrente contesta la violazione dell'art. 7 c.1. del d.lgs, n. 96 del 2001 relativa all'indebita utilizzazione del titolo di avvocato. La ricorrente in particolare "esclude un utilizzo abusivo e rileva che la pronuncia le addebita confusione, precisando che nella carta intestata e negli atti giudiziari risulta sempre usato il termine "abogado". Peraltro medio tempore è divenuta effettivamente avvocato con delibera del 3/7/2015.
Il ricorrente invece nell'unico motivo di ricorso contesta la "violazione dell'art. 53 della legge professionale e dell'art. 22 del nuovo codice disciplinare in quanto essendo divenuto avvocato è venuta meno la funzione della sanzione da rinvenirsi nell'evitare la reiterazione dell'illecito per il futuro."
E' da sanzionare l'abogado che con i clienti si firma av.
La Cassazione con la SU n. 17563/2019 precisa che, per quanto riguarda la professionista "La censura è inammissibile in quanto a pag. 8 della pronuncia impugnata, nel penultimo capoverso, viene svolto un esame comparativo ampiamente argomentato ed insindacabile in relazione all'uso del termine "av." nei rapporti con i clienti ed invece all'uso del termine "abogado" di cui allora era titolare, nei rapporti con il C.O.A. o con gli altri colleghi."
Sulla doglianza sollevata dall'uomo gli Ermellini rilevano come: "Le disposizioni poste a base della censura non contengono una qualificazione dell'illecito coerente con la prospettazione del ricorrente né alcuna altra norma della legge professionale, come sottolineato anche nella requisitoria dell'Avvocato Generale, stabilisce che la sanzione sia irrogabile soltanto quando l'illecito possa essere reiterato." Non solo, la Corte rileva come il CNF abbia "individuato nell'indebita utilizzazione del titolo di avvocato, pienamente consumata, e non eliminabile ex post con la sopravvenuta regolarizzazione, un illecito disciplinare connotato da un grado rilevante di gravità dell'infrazione e della responsabilità, in quanto realizzato anche attraverso la diffusione in Internet - e dunque con ampie potenzialità di conoscenza di terzi - del titolo non ancora conseguito." Decisione che, in quanto fondata su un percorso argomentativo adeguatamente motivato, deve ritenersi insindacabile.
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