di Lucia Izzo - Apostrofare un collega come "sleale, scorretto e spregiudicato" nello scritto inviato al competente Consiglio dell'Ordine non integra il delitto di diffamazione. È infatti consentito manifestare in un esposto dubbi in ordine alla correttezza professionale del collega, anche in forma "aspra e vibrata", ma le espressioni utilizzate non devono travalicare i limiti del corretto esercizio del diritto di critica.
- La vicenda
- Il diritto di critica scrimina le espressioni aspre nell'esposto al COA
- Niente diffamazione se l'avvocato chiede al COA una verifica di correttezza professionale
La vicenda
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Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, quinta sezione penale, nella sentenza n. 32407/2019 (qui sotto allegata) confermando l'assoluzione nei confronti di un avvocato accusato di diffamazione.
L'imputato aveva trasmesso all'Ordine degli Avvocati uno scritto circa l'operato professionale di un collega, che si tacciava di aver avuto un "comportamento sleale, scorretto e spregiudicato". Ciononostante, i giudici di merito non hanno rinvenuto in questo scritto alcun contenuto lesivo dell'onore altrui.
Anche la Cassazione ritiene insussistente il reato per mancanza delle sue condizioni di configurabilità oggettive, quanto allo stesso tenore diffamatorio delle espressioni utilizzate dall'imputato nel suo scritto, indirizzato all'organo competente per la verifica della correttezza professionale degli avvocati.
Il diritto di critica scrimina le espressioni aspre nell'esposto al COA
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Il contenuto dello scritto attribuito all'imputato, secondo gli Ermellini, non è riconducibile al reato di diffamazione in quanto le espressioni utilizzate nell'esposto inviato al Consiglio dell'Ordine dall'imputato, si limitano ad una critica, seppur aspra, alle capacità e alla condotta professionale della persona offesa e non appaiono esorbitanti da essa né volte a un indiscriminato spregio nei suoi confronti.
Come affermato dalla giurisprudenza richiamata dal giudice a quo (cfr. Cass. n. 33994/2010), è configurabile l'esimente di cui all'art. 51 c.p.; inoltre, è sempre espressione del legittimo diritto di critica richiedere controlli e verifiche sull'operato di soggetti che hanno peculiari poteri in ragione della professione esercitata.
Tuttavia, affinché sussista l'esimente e sia escluso il reato di diffamazione, è sempre necessario che nell'esposto non vengano utilizzate espressioni "direttamente e smodatamente offensive nei confronti della persona offesa", ma solo, appunto, dubbi e perplessità, che, seppur dovessero poi manifestarsi infondati, non travalicano il confine di un corretto esercizio del diritto di critica.
In altre decisioni conformi (cfr. Cass. n. 42576/2016) si è evidenziato come la condotta dell'imputato rientri nell'esercizio del diritto di critica di cui all'art. 51 c.p. qualora questi non abbia inteso divulgare a chicchessia fatti attinenti alla persona offesa oggetto delle proprie censure, ma solo investire l'organo a ciò deputato della valutazione della correttezza dell'operato del legale.
Niente diffamazione se l'avvocato chiede al COA una verifica di correttezza professionale
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Il Collegio ritiene dunque di condividere il principio secondo cui non integra il delitto di diffamazione (ex art. 595 c.p.) la condotta di chi invia un esposto al Consiglio dell'Ordine degli Avvocati contenente dubbi e perplessità, sia pur espressi in forma aspra e vibrata, sulla correttezza professionale di un legale.
In tal caso, infatti, ricorre la generale causa di giustificazione di cui all'art. 51 c.p., "sub specie" di esercizio del diritto di critica, preordinato a ottenere il controllo di eventuali violazioni delle regole deontologiche e sempre che dette espressioni non travalichino i limiti del corretto esercizio di tale diritto.
Il principio appare rispettato nel caso di specie, in ragione del fatto che le espressioni utilizzate non travalicano il limite costituito da una, sia pur vibrata, richiesta di verifica di correttezza professionale all'organo competente.
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