di Lucia Izzo - Si considera integrato il reato di maltrattamenti in famiglia qualora il coniuge, in crisi di coppia, porti l'amante a vivere nell'appartamento accanto a quello dell'altro partner, ovvero nello stesso immobile e collegato dalla stessa scala seppur con accessi separati. Nonostante la separazione, anche di fatto, restano sempre dei doveri di rispetto nei confronti dell'ex.
Così la Corte di Cassazione, sesta sezione penale, ha respinto l'impugnazione di un marito fedifrago. La sentenza n. 35677/2019 (qui sotto allegata) ha così reso definitiva la sua condanna a due anni e tre mesi di reclusione a causa dei maltrattamenti perpetrati nei confronti della moglie.
- Il caso
- Atti di disprezzo e offesa alla dignità possono integrare i maltrattamenti
- Maltrattamenti in famiglia: non necessaria la convivenza
Il caso
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Per diversi anni l'imputato aveva umiliato la donna costringendola anche a tollerare una convivenza more uxorio sotto lo stesso tetto con la sua amante, nonché minacciandola, percuotendola e lesinandole il denaro per far fronte a esigenze primarie, così da renderle la vita particolarmente penosa e dolorosa.
Il marito, oltre a contestare le dichiarazioni della persona offesa, sottolinea come la convivenza con altra donna fosse iniziata in autonomo appartamento, non dunque sotto lo stesso tetto e solo dopo aver chiesto alla moglie la separazione a cui questa lei si era opposta. Nel dettaglio, inoltre, sottolinea come trattavasi di appartamenti nello stesso immobile, ma con accessi autonomi e collegati da una scala comune.
Atti di disprezzo e offesa alla dignità possono integrare i maltrattamenti
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La Corte di legittimità rammenta come il delitto di maltrattamenti in famiglia non sia integrato soltanto dalle percosse, lesioni, ingiurie, minacce, privazioni e umiliazioni imposte alla vittima, ma anche dagli atti di disprezzo e di offesa alla sua dignità, che si risolvano in vere e proprie sofferenze morali.
Secondo gli Ermellini, un esempio di condotta idonea a integrare la fattispecie delittuosa, dunque, è proprio quanto avvenuto nel caso di specie in cui la moglie è stata costretta a sopportare la presenza di una concubina (cfr. Cass. n. 44700/2013).
La Corte d'Appello, con motivazione immune da vizi logici, ha sottolineato gli atti di offesa alla dignità della parte offesa, di disprezzo nei confronti della stessa, nonché le violenze fisiche e le minacce abitualmente poste in essere per anni ai danni della moglie.
Oltre all'iniziale imposizione della convivenza con altra donna, i giudici menzionano le continue privazioni economiche imposte alla donna e al figlio, costretti a recarsi alla Caritas per mangiare, mentre l'imputato viveva agiato con l'amante.
Il giudice di merito ha verificato e confermato la credibilità oggettiva e l'attendibilità delle dichiarazioni della donna e, seguendo l'insegnamento delle Sezioni Unite, le ha legittimamente poste a fondamento dell'affermazione della responsabilità penale dell'imputato (cfr. SS.UU. sent. n. 41461/2012).
Maltrattamenti in famiglia: non necessaria la convivenza
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Inoltre, rammentano gli Ermellini, il delitto di cui all'art. 572 del codice penale è configurabile anche in danno di persona non convivente o non più convivente con l'agente, quando quest'ultimo e la vittima siano comunque ancora legati da vincoli nascenti dal coniugio o dalla affiliazione (cfr. Cass. n. 3087/2017).
La separazione legale e a maggior ragione la separazione di fatto, sottolinea la Suprema Corte, dunque, lasciano integri i doveri di reciproco rispetto, di assistenza morale e materiale nonché di collaborazione.
In conclusione, poiché la convivenza non rappresenta un presupposto della fattispecie in questione, la separazione non esclude il reato di maltrattamenti, quando l'attività persecutoria incida su quei vincoli che, rimasti intatti a seguito del provvedimento giudiziario o della separazione di fatto, pongono, come nel caso in esame, la parte offesa in posizione psicologica subordinata o comunque dipendente.
L'uomo, oltre alle spese processuali, dovrà pagare anche 2mila euro alla cassa delle ammende in quanto "colpevole" nella determinazione della causa di inammissibilità, stante il suo ricorso palesemente inaccoglibile.
Scarica pdf Cass., VI pen., sent. 35677/2019• Foto: 123rf.com