di Redazione - Il porto d'armi per uso sportivo non può essere usato per scopi differenti, giacchè l'autorizzazione a detenere armi rappresenta una deroga al divieto generale in materia. A ricordarlo è la Cassazione nella recente sentenza n. 28320/2019 (sotto allegata).
La vicenda
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Nella vicenda, la Corte d'appello di Palermo confermava la decisione di primo grado, affermando la responsabilità dell'imputato in relazione ai reati di cui agli artt. 582, 583, primo comma, n. 1 e 2, 585, 577, n. 4, cod. pen. (capo A), 12 e 14 I. n. 497 del 1974, 61, n. 1, cod. pen. (capo B), 13 I. 497 del 1974, 61, n. 1 cod. pen. (capo C), provvedendo a rideterminare la pena in senso migliorativo.
L'uomo ricorreva per cassazione, lamentando tra l'altro vizi motivazionali e violazione di legge, e, richiamando, in relazione al reato di cui al capo B), l'orientamento giurisprudenziale alla stregua del quale l'autorizzazione al porto di fucile per l'esercizio della caccia rende legittimo il porto dell'arma anche se strumentale a finalità diverse, persino illecite.
Porto d'armi è una deroga al divieto generale
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Per gli Ermellini, tuttavia, l'imputato ha torto su tutta la linea. Ritenendo di dare continuità all'orientamento recente della S.C. (cfr. Cass. n. 44419/2015), la Corte afferma che "l'autorizzazione al porto di un'arma per un uso sportivo non rende legittimo il porto della stessa ove effettuato per finalità diverse da quella consentita dal provvedimento amministrativo".
Tale decisione, spiegano i giudici, "muove dalla condivisa premessa che il nostro ordinamento non riconosce come diritto soggettivo pubblico la possibilità per il cittadino di portare un'arma da fuoco fuori dalla propria abitazione. Al contrario, il porto delle armi - in difetto dello specifico provvedimento della Autorità della Pubblica Sicurezza che lo consenta - è in generale affatto vietato e costituisce condotta illecita".
In tale prospettiva può, quindi, affermarsi che è proprio il rilascio della licenza il fatto costitutivo del "diritto", per il suo titolare, di portare fuori dalla propria abitazione un'arma. La disciplina nazionale in materia di porto e trasporto di armi comuni da sparo, infatti, consente di rilasciare la licenza di porto d'arma solo per scopi di difesa personale, per il tiro a volo (uso sportivo) e per le altre attività previste dalla legge n. 157 del 1992.
La regola generale, in coerenza anche con la giurisprudenza amministrativa (cfr. Cons. Stato n. 5015/2018), ricordano ancora dal Palazzaccio, "è il divieto di detenzione delle armi; pertanto, l'autorizzazione a detenere armi non costituisce una mera autorizzazione di polizia, ma assume contenuto di permesso concessorio in deroga al divieto di portare armi sancito dall'art. 699 cod. pen. e dall'art. 4 comma 1, I. 18/04/1975 n. 110".
Per cui, l'autorizzazione di polizia "rimuove, solo in via di eccezione, tale divieto in presenza di specifiche ragioni e in assenza di rischi anche solo potenziali, che è compito dell'autorità di pubblica sicurezza prevenire e che spetta al prudente apprezzamento di detta Autorità di pubblica sicurezza l'individuazione della soglia di emersione delle ragioni impeditìve della detenzione degli strumenti di offesa".
La decisione
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Pertanto, concludono dalla S.C., l'affermazione secondo cui "sarebbero penalmente irrilevanti le finalità per le quali il titolare della licenza porta l'arma fuori dalla propria abitazione non è condivisibile, in quanto non si tratta di dare rilievo alle motivazioni interiori dell'autore della condotta, ma di valutare se quest'ultima sia o non consentita dal provvedimento concessorio che la permette. In difetto di siffatta corrispondenza, il porto d'armi deve ritenersi, in conformità alla indicata regola generale, vietato".
Da qui il rigetto del ricorso e la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
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